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Edizione eccellente della capolavoro di Dumas. Ho avuto modo di confrontarla con altre edizioni ed è quella che mostra maggiore fedeltà al testo originale. Consigliatissimo
Sublime, epico, coninvolgente, commovente, emozionante. Un classico senza tempo in una fantastica edizione che merita tutti i soldi che costa. Super consigliato!
Ho acquistato questa edizione del Conte di Montecristo quasi per caso, in quanto stavo comprando quella edita da Mondadori. Per fortuna ho letto da qualche parte il consiglio illuminante di una lettrice, la quale riferiva che questa edizione della Donzelli fosse la più fedele all'originale nella traduzione, senza tagli e con degli spunti davvero interessanti. Beh, che dire, 27 euro spesi davvero bene, non un romanzo qualsiasi, ma IL romanzo per eccellenza, secondo me il top in assoluto, da tenere in biblioteca e conservarlo come una reliquia. Trama incredibilemnte coinvolgente per un autore straordinario nella descrizione di personaggi, situazioni e stati d'animo. Imperdibile per qualsiasi lettore, dal più esigente a colui che si avvicina al mondo della lettura.
Recensioni
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Sin dal primo apparire del roman feuilleton (con la generazione di Balzac e Sue, di Dumas e Soulié), la critica si chiuse a riccio contro il nuovo popolarissimo "genere". La lunga diluizione di un romanzo su un foglio quotidiano sapeva di operazione commerciale, di scrittura sciatta, di narrativa immorale (all'immoralità si rimediò con una tassazione governativa). Sulla copiosissima produzione di Alexandre Dumas, poi, si vociferava di segreti e mercenari collaboratori alle stesure, i cosiddetti nègres (s'intitolava Ditta Alexandre Dumas & C. un pamphlet del solito malevolo Eugène de Mirecourt).
Nella République des Lettres il grandioso talento del romanziere, all'apice della popolarità, veniva liquidato da avare e supponenti parole di Sainte-Beuve. Invano si cercherebbe in tutto l'Ottocento francese un peana come quello che nel 1887 Robert Louis Stevenson avrebbe dedicato al Visconte di Bragelonne da lui letto "cinque o sei volte" (più o meno negli stessi anni in cui Zola contestava vivamente il progetto di un monumento a Dumas).
Anni cruciali di tanta forza lavoro sono il 1844 e il 1845: la conclusione dei Tre moschettieri (il suo capolavoro) si incrocia con gli albori del Conte di Montecristo. Quasi un'antitesi: lieve e scattante, pieno di humour l'affresco storico dei moschettieri; fosche, cadenzate, parche di ironia le vicende del Montecristo; romanzo dell'amicizia e della solidarietà il primo, apoteosi della solitudine il secondo. Anche il Male, caro alla musa di Dumas, ha incarnazioni differenti: mitico e assoluto con l'inquietante antagonista dei moschettieri, Milady; più borghesemente pragmatico, ma non meno letale, quello che muove i responsabili dell'ingiusta carcerazione di Edmond Dantès: ignavia (Caderousse), gelosia (Fernand) rivalità di carriera (Danglars), opportunismo politico (Villefort).
È arduo compito tentare di riassumere il frastagliato e perfetto intreccio del Montecristo; il percorso annovera slittamenti temporali, flashback, ellissi, incastri, ampie parentesi da romanzo picaresco (la storia del brigante Vampa).
Indubbiamente, l'arresto del giovane marsigliese Dantès ingiustamente accusato di complotto bonapartista e i suoi quattordici anni di prigionia nel castello di If hanno un dominio speciale sull'immaginario del lettore, come l'isola di Robinson Crusoé rispetto alle successive vicende post-insulari (fascino invincibile delle reclusioni, della disperazione, del minimo dei mezzi). E nel castello di If, grazie alla sapienza millenaria dell'abate Faria, il Montecristo diviene per gradi una sorta di romanzo di iniziazione e di formazione di Dantès, sino alla sua eclatante evasione e alla conquista del tesoro dei Borgia che l'abate gli ha indicato trovarsi celato nell'isola di Montecristo.
Quando ritroviamo Dantès, ormai favolosamente ricco, prima a Roma e poi a Parigi è trascorso un decennio. Dumas ha steso un lungo silenzio su questi due lustri cruciali che il lettore conoscerà per barlumi (tra contrabbandieri corsi, briganti laziali e viaggi in Oriente). Di certo, in essi si è compiuta la trasformazione del leale ed entusiasta ufficiale di vascello nell'algido e misteriosissimo Conte che interpreta la vendetta come ineluttabile missione della Provvidenza. Ritroverà a Parigi difatti i suoi ex carnefici di Marsiglia, elevati socialmente e di censo in seguito a sfacciate carriere; per mesi, senza fretta, frequenterà con fredda cortesia cene, salotti e teatri di questi rappresentanti della Haute, scoprendo segreti inconfessabili del loro passato che via via utilizzerà come mezzi per la loro perdita. Il lettore, deliziato, non può che continuamente ammirare lucidità, imperturbabilità, diplomazia, preveggenza e mezzi sconfinati del vendicatore. La società si balocca paragonandolo, ammirata e incuriosita, a un eroe di Byron (citati all'occasione Manfred e Lara, lord Ruthwen e Werner) o a un principe orientale, ma non sospetta certo l'artefice di un contrappasso, il rimpatrio di un Ulisse della Restaurazione. Soltanto ai tornanti finali della feuilletonistica trama, quando si sono dischiusi tutti i fiori del male possibili (tradimenti, venefici, imposture, l'ombra di un infanticidio), allorché Dantès tiene perfettamente le fila dei suoi burattini è altresì riconosciuto dalla fidanzata di un tempo, la bella catalana Mercédés, ormai sposa al conte di Morcerf. Solo allora, in quel duetto appartato e toccante, le sicurezze del protagonista conoscono un trasalimento, la voce un'incrinatura. Se la vendetta andrà egualmente in fondo, certe assolutezze della missione si spuntano; e si diffonde, forse inevitabile, un sentore di pietas cristiana.
Con leggerezza da funambolo Dumas, amalgama nel romanzo registri diversi. Parte da presupposti realistici e storici (l'importanza del confino napoleonico all'Elba; il colloquio tra Luigi XVIII e Blacas) e via via sviluppa suggestioni verso l'avventura e il fantastico. Dantès rinchiuso nel sudario con la palla di cannone, l'estenuante nuotata e la ricerca del tesoro sono archetipi a futura memoria di Stevenson o Verne. Appaiono riferimenti a Le mille e una notte; Dantès adotta lo pseudonimo di Simbad il marinaio e un paio di travestimenti fantasiosamente strategici (l'abate Busoni, lord Wilmore). Si sfiora anche l'onirismo romantico (Nerval e Nodier erano assai cari all'autore) nella pagina in cui Dantès, nel suo splendido sotterraneo dell'isola (una specie Nautilus ante litteram), offre dell'hashish al giovane Franz, scatenando in lui la visionaria animazione di tre statue femminili più sensuali che marmoree.
Se la parte ambientata a Roma sfrutta ancora tutto il pittoresco possibile (catacombe, briganti, carnevale, crude condanne capitali), confermando in Dumas sia il cronistadi voyages che l'autore provetto di romans noirs (basti ricordare Le meneur de loups), è finalmente a Parigi che personaggi, relazioni, antefatti si dispongono su una mappa metropolitana che Dantès percorre instancabile da un punto all'altro sino allo snodo; spostamenti che disegnano idealmente cerchi concentrici sempre più stretti. Più che precise le ubicazioni: rue de la Chaussée d'Antin (la pretenziosa residenza dei Danglars), Faubourg Saint-Honoré (palazzo Villefort, casa degli avvelenamenti), 28 rue de la Fontaine a Auteuil (la fosca magione dell'infanticidio acquistata da Dantès), 27 rue Helder (l'atelier del giovane Albert, pretesto per dissertazioni d'antiquariato, passione in Dumas non meno forte che in Balzac).
Ben due terzi del Montecristo raccontano così la moderna Parigi del 1838 giovandosi di riferimenti "colti", non usuali a un feuilleton: compositori (Meyerbeer, Weber), pianisti di grido (Thalberg), pittori (Delacroix "il nostro moderno Rubens"), cantanti (Duprez), giornali ("Corsaire", "Charivari"). Più volte l'Opéra (con i successi del momento: La Parisina, Lucia di Lammermoor o Guglielmo Tell) è al centro di scene cruciali. Senza modestia, l'autore citerà tre volte anche Antony, l'eroe più à la mode di quel suo teatro datato ma con molte fibrillazioni (due conviviali capitoli del romanzo, I convitati e La colazione, rivelano da soli una polifonia dialogica stupefacente). Capitano anche le imprecisioni: un personaggio, Albert, cita Colomba che Mérimée avrebbe pubblicato solo due anni più tardi, nel '40; e se Dantès è ventenne all'inizio della storia (1815) non può essere trentacinquenne nel '38. I ritmi lavorativi della ditta (Dumas e il collaboratore Maquet, molto più che un anonimo nègre) non andavano per dettagli.
Chiosare gli innumerevoli spunti del Montecristo e soprattutto tentare il ripristino di un testo affidato all'approssimazione dei giornali (e di cui Dumas avrebbe disperso con noncuranza il manoscritto) fu compito di edizioni annotate intorno al 1950 sino alla consacrazione della "Pléiad"e (1981) e soprattutto all'edizione Laffont (1993) curata dallo specialista massimo, Claude Schopp, cui si deve ora la stimolante, enciclopedica prefazione e l'articolato Dizionario dei personaggi di questo volume Donzelli, che tende a emancipare il capolavoro dalle insidie diminuitive dell'etichetta "popolare". L'editore ci ricorda che l'impeccabile traduzione di Gaia Panfili è la prima a non essere una rimasticatura di quelle ottocentesche.
Tanto si doveva a un personaggio che ha condizionato per un altro mezzo secolo il feuilleton e non solo. Verne licenzierà nel 1885 una sorta di remake del Montecristo, l'ambizioso Mathias Sandorf (dedica, non casuale, a Dumas fils). Lo scacchiere della vendetta si sposterà dal reseau parigino al Mediterraneo, come più conviene a un Voyage extraordinaire (ma il solitario e misterioso capitano Nemo non recava già a suo modo vindici ascendenze alla Dantès?).
L'archetipo avventuroso, giustizialista ed eslege del Conte avrà prosecutori anche in Italia. Si rilegga l'apparizione di Dantès-Simbad nel sotterraneo con descrizioni ben minuziose del costume e dell'arredamento, esotici sino all'iperbole; indi il "pallore quasi livido" del personaggio, "gli occhi vispi e penetranti", i "denti bianchi come perle che risultavano mirabilmente sotto i mustacchi corvini": come non ritrovare prodromi e stilemi di due noti vendicatori Sandokan, il Corsaro Nero di generazione umbertina?
Nessuna flessione ha mai subito Dumas nell'immaginario popolare. Né alcuno dei custodi di "generi" e di stili, poco teneri verso di lui (da Sainte-Beuve a Croce a Gide) avrebbe previsto le odierne revanches delle edizioni critiche e gli onori del Panthéon (con buona pace di Zola che riposa sotto la stessa cupola). Carlo Lauro
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