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Che negli esseri umani l'espressione somatica delle emozioni abbia caratteristiche del tutto universali Charles Darwin ritenne di poterlo affermare nel 1872; in quella stessa occasione, Darwin ipotizzò che la nostra specie condividesse molte altre proprietà, di carattere innato. Su quella scia, gli psicologi evoluzionisti contemporanei hanno avanzato negli ultimi due decenni la tesi che tra queste proprietà universali ci siano: la capacità di attribuire stati mentali (e di riflettere su di essi); la capacità di costruire strutture simboliche complesse e di comunicare mediante simboli; la struttura dei bisogni fondamentali; la selezione dei partner sessuali; le modalità di cura dell'infanzia; il senso di colpa; la cooperazione; il riconoscimento della devianza; numerose altre proprietà psicologiche di questo tipo. Congetture di questo genere, concernenti la "natura" degli esseri umani, sollevano spesso reazioni contrapposte. Da una parte, c'è chi tenta di estendere l'ambito delle caratteristiche naturali della nostra specie, in modo da ricomprendere proprietà o relazioni che sono il frutto di usi, di convenzioni, di accidenti storici, di imposizioni. Sul versante opposto, c'è chi tenta invece di rendere evanescenti le caratteristiche naturali della specie, riducendone l'estensione e ridimensionandone il ruolo; in questo quadro, molti sostengono che è semmai la cultura il tratto caratteristico degli esseri umani; su questo terreno, le proprietà naturali avrebbero ben poco da dire.
Negli ultimi anni, il riferimento a presunte caratteristiche imprescindibili della natura umana è stato spesso utilizzato nelle discussioni pubbliche concernenti i costumi sessuali, la convivenza, la nascita, la morte, le manipolazioni genetiche, alcuni interventi sul sistema nervoso. Per esempio, secondo un'esortazione apostolica del marzo 2007, "è un dato antropologico originario" che l'uomo debba "essere unito in modo definitivo a una sola donna e viceversa". Per contro, in un appassionato volume dedicato a Benedetto XVI, Francesco Remotti ha voluto affrontare con gli occhi dell'antropologo la tesi della monogamia e dell'indissolubilità del matrimonio: ciò che per la chiesa è "contro natura" (il carattere fluttuante e variegato delle relazioni sessuali e familiari) si presenta invece nel libro come un campo di possibilità ampiamente esplorato. Con un ricco rinvio ai risultati della ricerca sperimentale, Remotti ricorda infatti che accanto alla famiglia nucleare (marito, moglie e figli) la cultura umana ha conosciuto molte altre forme di aggregazione domestica: la famiglia matrifocale (madre e figli, senza marito), la poliginia (marito, co-mogli e figli), i co-matrimoni (scambi istituzionalizzati tra coppie), i matrimoni plurimi (tra vedovi, oppure tra divorziati), la poliandria (moglie, co-mariti e figli), le unità matriliniari (fratelli e sorelle conviventi, senza la presenza dei rispettivi partner), le famiglie congiunte nato-locali (consanguinei e loro discendenti, conviventi nella casa natale), gruppi domestici vari (convivenza tra generazioni non contigue, o relazioni di altro tipo, non legate direttamente alla procreazione).
Inoltre, passando a forme di relazione più eterodosse, Remotti ricorda comunità nelle quali erano ammesse: unioni tra omosessuali; unioni tra bambini; unioni eterosessuali tra adulti e bambini; unioni con individui sterili (garantendo la procreazione con il ricorso a un altro partner); unioni con lo spirito di un morto (surrogandone le funzioni con un individuo vivente). Infine, portando l'attacco sul terreno dell'avversario, Remotti osserva che la presunta "naturalezza" del rapporto monogamico non è coerente con altri aspetti della tradizione cristiana: l'Antico Testamento legittima la poligamia dei patriarchi; alcune comunità cristiane (non cattoliche) hanno storicamente ammesso la poligamia; la stessa chiesa cattolica ha in qualche occasione dato licenza ai poligami di mantenere una seconda moglie. Il "dato antropologico originario", secondo il quale l'uomo deve essere unito alla donna, è messo poi in questione dall'atteggiamento sessuofobico della rivelazione cristiana, secondo la quale a quella unione tra uomo e donna è in ogni caso preferibile la castità, la rinuncia al matrimonio e alla procreazione. Insomma: l'idea che il matrimonio monogamico e indissolubile sia riconducibile a qualche caratteristica naturale dell'homo sapiens, o sia comunque iscritto nella cultura universale degli esseri umani,sembra priva di fondamento.
Se l'analisi svolta da Remotti sul caso di studio le forme di stabilizzazione della sessualità e della convivenza privata è convincente e ben documentata, più discutibili sono invece alcune considerazioni d'ordine generale, in merito alla relatività dei punti di vista e al rapporto natura/cultura. Che un atteggiamento aperto, nei confronti dell'eteronegeneità dei fenomeni e delle diverse prospettive di analisi, sia in qualche modo una condizione preliminare per l'antropologia culturale, è abbastanza evidente; Remotti lo dà per scontato, quando ricorda che "gli antropologi hanno da sempre dovuto fare i conti con la molteplicità: se la negassero, avrebbero semplicemente da chiudere bottega". Tuttavia, quando questo atteggiamento di disponibilità al molteplice si trasforma in una concezione generale della conoscenza, che troppo concede all'arbitrarietà degli assunti, al carattere proteiforme del metodo, all'indeterminatezza ontologica e alla neutralità rispetto ai valori, l'antropologo tende a proporsi come filosofo, assumendo posizioni decisamente relativiste.
Però, anche rivendicando un punto di vista del genere, Remotti non sembra sposare alcuna forma di relativismo epistemico, concernente le asserzioni che riguardano i fatti e le loro condizioni di verità: anzi, la forza argomentativa del libro sta proprio nel rinvio a una ricca mole di fatti, i quali stanno a dimostrare l'irreperibilità di ogni norma naturale, in tema di convivenza e di intimità sessuale. Piuttosto, Remotti sembra incline a difendere una forma di relativismo concettuale, consistente in sintesi in questo: nell'idea che i termini con i quali ci riferiamo alla natura, agli esseri umani o alla società siano mere costruzioni, il cui significato dipende dallo schema concettuale adottato. A questo proposito, Remotti richiama autori e suggestioni che hanno avuto un indubbio rilievo nella cultura contemporanea, soprattutto negli scorsi anni ottanta; si può tuttavia osservare che gli esiti ripetitivi e per molti versi inconcludenti di quella prospettiva, insieme agli effettivi progressi che la riflessione logica, psicologica ed epistemologica ha garantito da allora, hanno determinato in tempi recenti un ragionevole "ritorno all'ordine": un'attenzione maggiore nei confronti degli elementi invarianti; la constatazione di una cronica carenza di schemi concettuali (in luogo della loro rigogliosa pluralità, postulata dai relativisti); il sospetto che la formazione degli schemi concettuali sia in qualche misura tributaria di abilità cognitive innate e condivise, le quali vincolano sensibilmente gli schemi concettuali accessibili; il riconoscimento della possibilità di stabilire collegamenti e confronti tra schemi concettuali diversi; la consapevolezza che il relativismo concettuale non implica quello epistemico (e cioè: ogni schema concettuale determina ciò che può essere detto; ma il fatto che certe proposizioni, asserite entro un determinato schema, siano vere o false non dipende in senso stretto da quello schema).
Tuttavia, anche prendendo congedo dalle forme più radicali di relativismo concettuale, si deve concedere questo: se è vero che nella storia umana si sono date e si danno molteplici forme di organizzazione della convivenza e della sessualità, sembra inevitabile concludere che almeno su questo terreno gli esseri umani facciano riferimento a differenti sistemi di valori. Di qui, lasciando stare altre forme di relativismo, sembrerebbe ovvio concludere a favore del relativismo sui valori. Però, anche in questo caso, una conclusione del genere potrebbe essere affrettata. Infatti: prendere atto che si diano diversisistemi di valori non significa ammettere che questi sistemi siano equivalenti. L'eventualità che non si diano criteri neutrali per giudicare valori non obbliga ad astenersi dal criticare altri sistemi di valori, sulla base del proprio. Se, del resto, uno è incline a pensare che i sistemi di valori siano in ultima analisi interpretabili come risposte adattative a problemi ambientali, sarà anche propenso ad ammettere che la prevalenza di certi sistemi, piuttosto che altri, sia regolata da qualche principio di fitness. In ogni caso, riconoscere la pluralità dei sistemi morali non implica il relativismo morale; comprendere le ragioni per le quali certe comunità assumono certi comportamenti, sulla base di certi valori, non obbliga a condividere quei valori, quelle ragioni e quei comportamenti. E ciò basti, per quanto attiene al relativismo.
Quanto poi al rapporto tra natura e cultura, nel determinare le caratteristiche specifiche degli esseri umani: Remotti riconosce che si danno "'condizioni naturali' [le quali] contraddistinguono gli esseri umani sotto il profilo biologico ed ecologico"; ritiene però che non sia praticabile il tentativo di ricondurre aspetti della cultura umana a quelle "condizioni naturali". Questa tesi consiste in ultima analisi nel ritenere che l'antropoiesi non sia vincolata (dall'interno) dalle caratteristiche del genotipo e del fenotipo, né sia filtrata (dall'esterno) dalle condizioni dell'ambiente materiale (naturale o artificiale che sia). A parere di chi scrive, quale possa essere il ruolo effettivo di questi vincoli e di questi filtri è questione di carattere empirico, alla quale non sembra potersi dare una risposta a priori. Giovanni Iorio Giannoli
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