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Anno edizione: 2004
Anno edizione: 2016
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Difficile riassumere i contenuti di questo testo di Spivak, non solo perché ricchissimo di esempi e di panorami diversi, ma perché tutto è in qualche modo concentrico. Ogni affermazione è un accrescimento della precedente, i dati si intrecciano con le storie e la conoscenza che ne emerge è polimorfa e impermeabile a ogni categorizzazione. E questo perché si tratta di un'azione negli interstizi della cultura, in quelli che Homi Bhabha chiama i luoghi della cultura. Fuori dalle accademie, dai confini nazionali, spesso nazionalistici, che una certa sfera culturale si impone di sottolineare. Ecco perché leggere Spivak è sorprendente: uno stupore per come l'autorevolezza concettuale viene sciolta, dipanata e ricomposta in nuovi interstizi, nuove, palpitanti, visioni del mondo. Lo stesso indice si fa carico di affermare questa visione volutamente non idealistica e volutamente totale. Assolutamente non timorosa. Quattro estesi capitoli, dedicati a Filosofia , Letteratura , Storia , Cultura . Tutte le mete che i cultural studies hanno affrontato, con una particolare attenzione al panorama americano, non casuale obiettivo polemico.
Se fare critica significa soprattutto dare dei limiti, nel caso di Spivak questi diventano forme nuove, tracciati. Si inizia, appunto, con Filosofia . Il primo cardine che viene rivoltato è proprio l'approccio accademico a questo termine: da Kant a Hegel fino a quel "rovesciamento" che caratterizza l'approccio marxista. La prima rivelazione dell'autrice è che la critica è ancora altrove, che i fautori dei principi della filosofia moderna fossero in realtà i principali sostenitori di un assoluto occidentale. A ribaltare questo meccanismo non saranno però nuovi concetti, una nuova teoretica. La costante sperimentazione linguistica del testo porterà a una terminologia diversa, altra, costruita secondo le regole base della decostruzione. Il primo di questi termini è l'informante nativo; preso a prestito dall'etnografia, l'informante nativo di Spivak è "un luogo di tracce non in elenco". Su queste tracce si muoveranno i successivi tre capitoli. L'operazione è insieme una narrazione e una scoperta. Si prendono tracce già esistenti e si rileggono. L'informante nativo è un'informazione pura che già esiste, ma che non è stata propriamente considerata, accettata. Così Jane Eyre incontra Bertha Mason, ufficiali inglesi si scontrano con la volontà di suicidio di una Rani, regina che vuole diventare vedova senza aver perso il marito. L'assiomatica dell'imperialismo contro l'esempio reale, umano, che sia un uomo, che sia, a maggior ragione, una donna.
Per scoprire, nell'ultimo capitolo, che anche le visioni più democratiche per scelta, come quella di McLuhan, o per stile, come il postmoderno di Jameson, sono nuovamente delle canonizzazioni occidentali. L'azione occidentale rispetto all'informante nativo prende il nome di forclusione , questa volta ripreso da Lacan. Se l'informante nativo spalanca sin dal primo capitolo i confini e i limiti che la critica occidentale si era data, la forclusione diventa un nome-denuncia per quello che è l'errore principale. Non si tratta solo di esclusione, ma di una violazione alla conoscenza. Il meccanismo di forclusione diventa un dovere etico, qualcosa di molto vicino all'imperativo categorico kantiano, ma la morale che viene regolata è quella di un Occidente che ancora non riesce a eliminare la sua ombra imperialistica.
Laura Di Summa
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