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Dal fanciullo prodigio al mondanissimo predatore, dal poeta deputato al poeta soldato, dallo scrittore all'aviatore, dall'uomo carnale all'"l'artefice dedaleo" che non si risparmia nessuna fatica. Quando si parla di D'Annunzio le maschere si moltiplicano, i ruoli s'intrecciano, le mutazioni si disegnano in una sorta di trasformismo spettacolare, tanto esibito quanto subito. Tra "formula" e vita, tra testo e gesto, tra folla e cenobio, tra piazza e silenzio, tra bellezza e voluttà, tra eretismo e atonia, tra mitologie orgiastiche e astensioni ascetiche, quale filo potrebbe mai aiutarci a dipanare il gomitolo dei contrasti, quale ritratto sarebbe capace di fissare le metamorfosi di uno scrittore controverso che teorizza il tradimento sistematico come unica fedeltà?
Una scommessa che ha mosso un dannunzista di lungo corso come Gianni Oliva a scrivere un libro che oltre i soliti e facili pastoni giornalistici va in cerca di una più profonda chiave interpretativa, interrogandosi su cosa ci sia dietro il D'Annunzio più vulgato, "dietro la faticosa messinscena di se stesso". Non tanto una novità di lettura, se è vero che le tracce della "malinconia" dannunziana sono disseminate un po' dovunque (e sono state più volte sottolineate), ma di certo una ricognizione sistematica che saggio dopo saggio indaga nelle pieghe e nelle rughe di un egotismo apparentemente invitto, offrendo un modello per altre letture non meno sistematiche che potranno andare nella stessa direzione.
Un libro, insomma, che non esaurisce un tema, ma che apre una prospettiva di ricerca dietro una consapevolezza del resto esplicita: "È necessario che gli studi dannunziani escano una volta per tutte, molto di più di quanto non abbiano fatto finora, dagli stereotipi, imparando umilmente a 'saper leggere' nel continente-D'Annunzio, insistendo su alcuni elementi della sua scrittura prima trascurati perché ritenuti improbabili o addirittura impossibili, e tutto ciò a 'chiarezza di sé".
Molto più di quanto qui è stato fatto (nonostante che un intero capitolo sia dedicato alle "carte segrete" e alle etere attendenti e compiacenti), resterebbe tuttavia da attingere ai carteggi, perché dietro la franchezza più spontanea dell'indignazione, è lì che si muovono le dichiarazioni meno irriflesse di tristezza cupa o di "malinconia" (fino all'"angoscia" da recluso di cui ha parlato una volta Marziano Guglielminetti per le lettere "senili"). A puro titolo d'esempio potrebbe valere ciò che D'Annunzio scrive alla moglie Maria Hardouin di Gallese, quando già da dieci anni ne vive separato: "Non c'è credo al mondo un uomo che sia più di me inetto alla felicità". Cui può far eco in anni di splendore ciò che scrive a Giuseppe Treves, fratello di Emilio, in un carteggio che è stato lo stesso Oliva a curare per Garzanti (diciassette anni di vicende d'opere e di fatti, dal Notturno al Compagno dagli occhi senza cigli, dalla morte del vecchio editore all'avvento della cometa di Arnoldo Mondadori): "Nulla è paragonabile all'ebbrezza del lavoro. Il resto è fango o fumo".
Oliva fa di meglio. Perché la parte più cospicua del suo libro distribuito in cinque saggi e un'appendice (costituita da una lettura di alcuni versi rivelati anni fa da Pietro Gibellini in cui si mostra un sorprendente D'Annunzio poeticamente scarnificato e ossuto, che non per paradosso allegherei al "frammentismo" di un Rebora o di un Boine) è quella che al di là delle molte tracce recuperate, dalle poesie alle prose, da Primo vere al Paradisiaco e oltre, dal Libro segreto al Notturno, dalla Contemplazione della morte al Compagno dagli occhi senza cigli riguarda l'analisi dei romanzi del ciclo della "Rosa" (Il piacere, L'innocente, Il trionfo della morte) e poi del romanzo Il fuoco, che più degli altri consente di ipotizzare una possibile fonte nella lettura di un classico dei nati "sotto il segno di Saturno": ossia il secentesco Robert Burton, The anatomy of melancholy, di cui non v'è attualmente traccia presso la biblioteca del Vittoriale, ma che è stato tra i libri posseduti da D'Annunzio alla Capponcina (di una parte del libro di Burton fu fatta un'edizione presso Rizzoli con il titolo Malinconia d'amore nell'81).
Lentezza, incertezza, il crollo del tempo, la dissimulazione, la segretezza, l'oscillazione, l'infedeltà alle persone e la fedeltà agli oggetti (basterebbe il collezionistico e funereo bric-à-brac del Vittoriale), la volontà difettiva allenata fino al tormento, il bisogno e l'amarezza della solitudine, l'attenzione spasmodica e la capacità di lavoro, il nichilismo in agguato. Un quadro che una volta ha fissato Susan Sontag per leggere la "malinconia" di Benjamin, ma che con opportuni distinguo potrebbe essere adattabile anche a D'Annunzio e ai suoi alter ego: da Andrea Sperelli a Tullio Hermil, da Giorgio Aurispa a Stelio Èffrena.
Tra il pianto di Eraclito e il riso di Democrito, la vicenda dannunziana s'inscrive a tutto titolo entro la storia dell'ombra e del demone meridiano. Lo spirito del fuoco che si converte in cenere, il vitalismo sfrenato che invoca il suo abisso. Dietro la pienezza (o la menzogna) della carne, il nulla che respira. Giovanni Tesio
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