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“Da qualche parte vicino al mare” sembra il titolo di un libro che racconta un percorso itinerante e la cartina della vecchia Jugoslavia potrebbe ingannare chiunque. Ma, dopo poche pagine, si capisce che chi ha avuto questa impressione si è sbagliato. Il viaggio c’è, ma l’itinerario è interiore, è uno struggente inno all’amore per il calcio e al recupero dei valori che lo hanno contraddistinto e che oggi sono venuti a mancare. Evidentemente l’autore conosce l’arte del dribbling e riesce a farlo anche con le parole. Il Tikrit, il protagonista, è un uomo dall’aria sofferente, ma dai sani principi e con le idee ben chiare. La sua sensibilità lo porta ad una continua ricerca di riferimenti musicali e letterari di cui evidentemente è intriso e al recupero della sua infanzia, appena tratteggiata in stile impressionistico, ma vivida e fondamentale per la comprensione del suo carattere. “Il Tikrit si sentiva al fianco dei molti Ettore, che sanno di doversela cavare da soli, con il coraggio e la passione, che gli vengono da sani e profondi principi. Achille con il suo tallone, non gli sarebbe mai piaciuto. Era divino. E nel duello, partiva avvantaggiato. Così come in vantaggio si trovano coloro che barano, che conoscono, che hanno un prezzo ragionevole. Il Tikrit si sedette dalla parte del torto, visto che tutti gli altri posti erano occupati.” Apparentemente vaso di coccio in mezzo a tanti vasi di ferro, si dimostra orgoglioso e consapevole delle sue qualità. Bellissime le pagine in cui descrive le doti tecniche di un giovane giocatore, momenti che a chi, come me, ha la barba bianca infonde nostalgia di quel calcio in bianco e nero. In alcune descrizioni è facile sentire le voci di tanti ragazzini, portate dal vento del ricordo, in quelle lunghe giornate d’estate in cui, a tarda sera, dopo aver giocato per ore qualcuno diceva: “Un altro gol, chi fa questo ha vinto” mentre le mamme scodellavano per la cena e i padri fischiavano dalla finestra per richiamarci a casa.
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