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In lingua italiana è una delle poche opere che si focalizza sulla vasta instabilità interbellica della Mitteleuropa. Giusto per ricordare anche ai lettori colti che al 1 settembre 1939 non si è arrivati solo per il revanscismo tedesco (peraltro legittimo) su Danzica.
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"Abbiamo combattuto con decisione per fermare il fronte bolscevico, contrapponendoci anche agli ordini che ci venivano dal nostro governo, messo sotto pressione dall'Intesa". Con tale appello, rivolto nel novembre 1919 alla "patria tedesca e a tutti i popoli civili del pianeta", Paul Siewert, comandante della Deutsche Legion, una formazione militare inquadrata nell'esercito russo bianco dell'Ovest, interpretò il senso di quella "guerra dopo la guerra" che si svolse nella regione baltica tra 1919 e 1922, dove, per assicurare un forte presidio antisovietico, l'Intesa riconobbe alla Germania lo status temporaneo di "potenza occupante". È dunque a partire dalla ricostruzione del scenario politico e militare dell'Europa centro-orientale all'indomani del 1918 nel contesto del quale, si badi bene, la Deutsche Legion di Paul Siewert e i Freikorps di Rüdiger von der Goltz furono solo due dei numerosi attori in campo che i curatori di questa accurata e per molti aspetti innovativa raccolta di saggi hanno riportato l'attenzione su una porzione perlopiù trascurata della storia europea e, al contempo, delineato un quadro di massima delle "guerre dimenticate" del periodo interbellico: tra queste, il conflitto polacco-lituano e quello polacco-ceco per il possesso rispettivamente di Vilna e della regione di Tĕín, la guerra polacco-sovietica, la contesa polacco-tedesca per la Slesia centro-orientale o, ancora, quella italo-slovena per Trieste.
Più precisamente, prendendo in esame quell'arco di tempo compreso tra 1918 e 1938, cioè tra la pace di Versailles e la Conferenza di Monaco, durante cui gran parte del continente europeo fu attraversata da una serie quasi ininterrotta di conflitti a "bassa intensità" (geograficamente circoscritti, ma non meno sanguinosi e influenti sul piano delle conseguenze di lunga durata), i saggi qui raccolti riportano alla luce un panorama estremamente complesso, segnato da un inestricabile intreccio tra guerra regolare, guerra civile e guerra sociale, che consentirebbe, secondo quanto sostenuto da Davide Artico, docente presso l'Università di Wrocław (Breslavia), e da Brunello Mantelli, professore a Torino, di richiamarsi alla definizione di "Guerra dei Trent'Anni del XX secolo". Rispetto a quella propriamente detta, quest'ultima si giocò tuttavia non più sulla contrapposizione religioso-confessionale, bensì su quella strettamente politico-ideologica. Se l'ideologia nazionale e, dopo il 1917, quella antibolscevica, svolsero dunque un ruolo chiave nello scatenarsi e nel prolungarsi dei conflitti tra i nuovi stati nazionali sorti dopo il crollo della Germania guglielmina, dell'Austria asburgica e della Russia zarista, gli autori dei diversi saggi non mancano peraltro di mettere giustamente in risalto il fatto che l'una e l'altra finirono spesso per ricoprire la funzione di puri e semplici pretesti, al di sotto dei quali continuarono a svolgere una funzione cruciale tanto gli interessi di potenza quanto le ambizioni egemoniche delle stesse classi dirigenti locali.
Come emerge in maniera emblematica dalle pagine del saggio di Evgenij Jurevič Sergeev, dedicato all'analisi della politica adottata da Londra verso gli stati baltici tra 1918 e 1922, la ricostruzione puntuale degli eventi rivela infatti come la coltre weltanschaulich, con cui furono giustificate le strategie di volta in volta adottate dai vari soggetti nazionali, si sia perlopiù limitata a far da paravento a dinamiche di natura puramente realpolitisch: nel caso della Gran Bretagna, per esempio, la politica perseguita da Downing Street fu condizionata non solo dall'orientamento dei vari governi che si alternarono in quegli anni, ma anche da molteplici necessità geopolitiche, tra cui quella di contenere l'influenza francese, quella di impedire un eccessivo indebolimento della Germania, quella di frenare l'avanzata bolscevica e simultaneamente le mire espansionistiche polacche, quella di evitare l'emergere di spinte revansciste a Berlino e a Mosca, nonché dalla volontà di assicurarsi ampi spazi di penetrazione commerciale e finanziaria.
Ne consegue pertanto, secondo quanto è possibile evincere dall'insieme delle analisi qui svolte, che la riconfigurazione postbellica dell'Europa si rivelò nei fatti un vero e proprio fallimento, non solo perché, alla luce del programma wilsoniano, si ritenne di poter tracciare dei confini laddove questi, per via della secolare complessità etnica, culturale e linguistica, non erano tracciabili, ma anche perché, sacrificando talora lo stesso principio dell'autodeterminazione nazionale sull'altare degli interessi imperiali, si finì per creare quelle fatali condizioni a partire dalle quali fascismo, nazismo e stalinismo avrebbero di lì a poco impostato le proprie rispettive strategie revisionistiche.
Federico Trocini
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