Sabino Cassese non è soltanto un insigne studioso del diritto amministrativo, con interessi di ricerca che vanno ben al di là della sua specialità, dimostrati dalle numerose pubblicazioni di taglio storico politico, e con una solida cultura filosofico letteraria, come egli stesso ricorda in una recente intervista alla "Stampa", dove ci parla delle sue numerose e varie letture. È anche stato un importante uomo pubblico che ha ricevuto incarichi prestigiosi, tra i quali spiccano quelli di ministro del governo Ciampi e di giudice della Corte costituzionale dal 2005 al 2014. Il libro, dedicato a quest'ultima esperienza, sollecita alcune considerazioni preliminari. Se guardiamo alle analogie di scrittura che caratterizzano le diverse discipline grazie all'effetto diffusivo delle mode, già rilevato molti anni fa da Roland Barthes, notiamo oggi affermarsi un taglio soggettivo, rispetto al più compassato e oggettivante andamento della trattatistica tradizionale. Dopo la (frettolosa) dichiarazione di morte dell'io sancita dallo strutturalismo, ecco infatti riemergere in gran forza il soggetto, ovvero l'homo narrans. Con un forte impatto sull'editoria: gli scaffali delle librerie rigurgitano di autobiografie, diari di lavoro, carteggi ed epistolari. Queste cose Cassese, che è giurista colto, le sa bene; non a caso nell' introduzione entra subito nel merito del cosiddetto "patto autobiografico" tra autore e lettore, mettendo in evidenza "l'interpretazione", il tratto mutevole e soggettivo delle sue osservazioni ("il lettore noterà che le mie opinioni sono cambiate nel tempo", per lo più con accentuazione più severa, come si vedrà). Ma qual è il destinatario di Cassese? Qui occorre una distinzione. Il titolo è certamente accattivante, allusivo di un percorso capace di condurre il lettore non specialista nelle segrete stanze del potere giudiziario e politico del nostro paese. Tuttavia, malgrado l'ampio e promettente indice dettagliato, denso di lampi accesi su vicende importanti di cui si è dovuta occupare la Corte con una serie di sentenze "storiche", le note sono in realtà, per quanto riguarda il contenuto delle decisioni nel loro concretarsi, fulminanti pareri destinati agli esperti dotati di buona memoria, capaci di orientarsi nell'intricato scenario giuridico del nuovo millennio. Ma c'è un secondo aspetto sul quale i mass media sono molto carenti, un aspetto di grande interesse per tutti gli osservatori delle vicende delle istituzioni. Alludo ai giudizi sul modus operandi della corte e sul suo personale. Su di esso intendo concentrarmi. Lascio da parte i pareri positivi su alcuni aspetti della giurisprudenza della Corte, che mi sembrano scontati. Con riferimento alle prassi, in alcuni casi sono le carenze della disciplina l'oggetto del clinico taglio critico supportato da una forte competenza comparativa. Un esempio molto insistito riguarda la mancanza della dissenting opinion motivata a opera del giudice che non ha ritenuto di condividere le decisioni della maggioranza. Insistenza probabilmente dettata anche da numerosi voti contrari su decisioni importanti, di cui si dà atto. Viene poi denunciata la tendenza all'incremento delle decisioni sui conflitti (tra stato e regioni, tra parlamento e magistratura) e alla diminuzione di quelle a protezioni dei diritti fondamentali. Accanto al giusto rilievo sull'uso eccessivo delle declaratorie di inammissibilità, tra le ragioni di questa tendenza non piace all'autore il così detto decentramento del controllo di costituzionalità, incoraggiato anche dalla Corte con lo stimolo ai giudici competenti per la rimessione a cercare tra le possibili interpretazioni quella conforme alla Costituzione. Non mi sembra che sia un male, almeno nella misura in cui tale interpretazione diventi diritto vivente, come spesso accade. Con riferimento infine alla prassi invalsa da tempo di nominare alla scadenza presidente della Corte uno dei giudici più anziani, che starà in carica per periodi a volte brevissimi, l'autore muta giudizio nel corso del tempo. Da quello all'inizio indulgente nelle primissime pagine, ad uno molto severo, ben riassunto nella lettera inviata nel 2014 a Giuseppe Tesauro, come lui possibile candidato per una presidenza di pochi mesi, nel tentativo fallito di convincerlo a togliersi di mezzo per favorire una presidenza con una durata ragionevole. Peccato, perché le presidenze brevi o brevissime sono molto mal viste dall'opinione pubblica, che le concepisce come frutto della volontà di distribuire il più possibile il frutto dei privilegi sociali e fino a poco fa anche economici, connessi alla qualità di presidente emerito della quinta carica della repubblica. Ma è soprattutto con riferimento all'attività interna, anche amministrativa che Cassese manifesta spesso un'irritazione, sia pure elegantemente trattenuta, che induce a pensare che la "prigione", così qualificata per l'incatenamento ai precedenti e alla tradizione lo diventi poco a poco in un senso ben più ampio. Sintomi significativi, il senso di liberazione che traspare, attraverso un velo di narcisismo, dalle numerose note dove ci ricorda le continuate attività internazionali, dalla partecipazione annuale al seminario del club di Yale, all'insegnamento, tra le altre, alla New York University, ai rapporti intensi con giudici costituzionali di corti straniere. D'altronde, non gli si può dar torto quando, a titolo di esempio, sottolinea la contraddizione tra la severa giurisprudenza della Corte in materia di impiegati pubblici con i favoritismi nei confronti degli interni, le difficoltà incontrate nell'organizzare seminari, anche per la mancanza di un serio ufficio studi, l'incuria in cui è lasciata la biblioteca, la mancata istituzione dell'archivio, pur prevista dal regolamento, il disinteresse dei colleghi per le sue iniziative, l'attenzione a che non vengano diminuiti gli stipendi, in sintonia con l'austerity richiesta in tutti i settori della pubblica amministrazione. Queste e altre notazioni segnano la partecipazione di uno dei pochi Rechtshonoratioren italiani a un organo collegiale che, come tutti, non può non risentire del declino, non solo economico, ma anche etico e culturale, del nostro paese. Ricordiamo la tipologia dei colleghi (da sperare non esaustiva) descritta: "Il giudice 'coco', che conosce due argomenti e solo su quelli parla. Il giudice stanco. Il giudice petulante, che studia, ma argomenta sempre in tono minore. Il giudice che deve ancora imparare. Il giudice che non sa e non cerca neppure di sapere. Il giudice bravo, ma che 'aggiusta' al momento opportuno le sue argomentazioni con ragionamenti pratici. Il giudice 'fino fino', ma affezionato alle sue passate sentenze (
) Il giudice che fa concioni (
) Il giudice che quando illustra le questioni confonde le idee agli ascoltatori. Il giudice che confonde giudizio di costituzionalità con giudizio di legittimità. Il giudice episodico, che rapidamente si infiamma. Il giudice sdegnoso e preoccupato dei simboli del prestigio (
) Il giudice bravo e preparato, ma partigiano". Di fronte ad un quadro così sconfortante viene spontaneo pensare che il bel verso della Winterreise che chiude il libro potrebbe essere attualizzato dal titolo di un libro famoso: "What Am I Doing Here?" Sergio Chiarloni
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