I detective selvaggi
- EAN: 9788838916670
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10/01/2021 13:10:07
La prima parte del libro (circa 150 pagine) e il finale (circa 70 pagine) sono costruite su un ritmo, una voce e uno stile dettati dal narratore della storia. Nel mezzo, centinaia di pagine che deviano da quel ritmo, voce e stile. Pagine fatte di tante voci differenti che, se si ha la pazienza di ascoltarle, possono trascinare in una poetica danza sudamericana.
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23/12/2014 16:18:58
Semplicemente incredibile, un libro che apre finestre, porte e strade. In questo romanzo vengono delineate le utopie di un'intera generazione che credeva nella rivoluzione e nella letteratura. E'la storia di un gruppo di guerriglieri della parola che armati unicamente con il loro atteggiamento poetico volevano cambiare il mondo e invece hanno finito per disperdersi in esso. Un libro romantico e crudo allo stesso tempo, e posso affermare - senza essere blasfemo - che I detective selvaggi rappresenta per molti versi il Rayuela della fine del secolo. Ha un solo difetto: ti fa venire ancora più voglia di leggere senza sosta.
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04/05/2013 12:03:11
la conclusione del romanzo vale l'intera lettura: bolano è un maestro della finzione, dell'intreccio, del salto spazio temporale che la letteratura, la grande letteratura, esige dallo scrittore genuino. non è un affresco novecentesco, non è un pamphlet politico, non è una vicenda surreale, non è una road-book story, non è un poliziesco; è essenza letteraria che avvince il lettore a inseguire pagina dopo pagina le vicende di un gruppo di teorici della poesia realvisceralista fino al raggiungimento del loro vero scopo: il ritrovamento della fonte dell'ispirazione poetica. è un bel libro, leggetelo. alberto
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23/10/2008 02:44:48
Bolagno, uno scrittore di strada e di bibloteca, lontano dalle luce, un neo-romantico pieno d`ironia, legato alla sua scrittura come un orticultore al suo orto... noi saggiamo i suoi frutti.
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10/07/2008 13:47:42
Non era collaudata la mia familiarità con Bolano (solo "2666" e "stella distante") quando mi è capitato di farmi trascinare da lui lungo le polverose strade messicane alla ricerca dell'improbabile fondatrice dell'ancor più improbabile "realismo viscerale". Esperienza amabile e coinvolgente, che lascia il segno. Delizioso il filo che, fantasioso e labirintico, ti trascina per 600 pagine di affabulazione mirabile, sciorinando un profluvio di storie e personaggi - in realtà la vera sostanza del romanzo- che si muovono, ognuno con la sua originalità e compiutezza, sul palcoscenico dell'America Latina e della sua letteratura(un po' vera e un po' inventata in realtà, com'è tipico di Bolano). Uno dei libri migliori che mi sia trovato a leggere negli ultimi anni.
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24/10/2007 15:50:02
Una lettura senz'altro impegnativa, ma appagante; vale la pena di fare uno sforzo e di dedicare qualche giorno (o qualche settimana...dipende dalla vostra velocità di assimilazione!) alla scoperta di questa originalissima opera. Più d'uno i punti di contatto con il Maestro messicano Carlos Fuentes ed il suo superbo "Cambio di pelle".
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25/06/2007 18:12:24
non capisco come la gente possa pensare di questo romanzo come ne pensa francesco... è scorrevole, profondo, suggestivo, metafisica e assolutamente geniale nello sviluppo finale (giunto al finale?) bah...
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27/05/2006 22:28:24
Leggere per credere. Un romanzo che chiude un millennio e ne apre un altro. Eccezionale.
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01/08/2003 17:08:14
Un affresco picaresco, ironico, impudico, a tratti doloroso del subcontinente sudamericano smarrito e dei suoi naufraghi. Un mosaico di storie collegate da un riferimento, una parola, un ricordo, che si lega ad un altro ricordo, in modo apparentemente casuale, creando la Storia con tutte le sue sfaccettature e punti di vista. Una straordinaria galleria di personaggi, tra i quali Ulises Lima e Arturo Belano (alter ego di Bolano?) la fanno da protagonisti, anche quando non lo sono. Hugo e Pirandello, con accenti talvolta balzacchiani. Semplicemente meraviglioso!
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17/07/2003 21:01:08
Un bravo romanzo!
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12/06/2003 18:08:17
Dopo "La letteratura nazista" un altro splendido falso di Bolano. Le vicende di centinaia di personaggi, di fantasia e non, narrate con realismo viscerale. Un inno alla fantasia letteraria. Lettura consigliata per chi ama gli scrittori latino-americani come De Santis, Denevi, Puig, Soriano e il Vargas Llosa del "Narratore ambulante".
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20/05/2003 11:52:24
Dopo vari romanzi (o qualcosa di simile) sperimentali, che sembravano contenere germi positivi e lasciavano sperare in una evoluzione narrativa più chiara e più solida, Bolaño ha finalmente varcato la linea e ha deluso ogni attesa: un vero mattone, che rivela una assoluta incapacità di autocritica e di autocontrollo.
“La notte prima, quando eravamo rimasti in pochi, Ernesto San Epifanio aveva detto che esisteva una letteratura eterosessuale, una letteratura omosessuale e una letteratura bisessuale. I romanzi, in genere, erano eterosessuali, la poesia invece era assolutamente omosessuale, i racconti, deduco, erano bisessuali, anche se questo non lo disse. Nell’immenso oceano della poesia distingueva varie correnti: finocchioni, finocchie, finocchietti, pazze, busoni, velate, ninfi e fileni”.
Erano veramente storie selvagge, le sue, irriducibili ad ogni categorizzazione, indisciplinate e caotiche: ma i suoi sberleffi lasciavano il segno come frustate. Il cinquantenne scrittore cileno Roberto Bolaño è morto a luglio in Spagna (per un’insufficienza epatica per la quale era in attesa di trapianto), poco dopo l’uscita in Italia del suo romanzo I detective selvaggi e poco prima di pubblicare il suo nuovo libro, un romanzo di fantapolitica intitolato “2666”. Il primo incontro del nostro pubblico con lo stravagante Bolaño è stato nel 1998 con La letteratura nazista in America in cui, nascondendosi sotto il titolo saggistico, lo scrittore cileno già dava una brillante prova del suo talento ironico e anarchico, tracciando un affresco virtuale animato da vite immaginarie. Anche in I detective selvaggi, le labirintiche peripezie di un gruppo di giovani poeti messicani che si definiscono “realisti viscerali” e sono dediti più che altro a strampalati eccessi sessuali, alcolici e quant’altro, è un pretesto per descrivere, attraverso il caleidoscopio di una fantasia sfrenata e zampillante, l’impossibilità di sopravvivenza degli ideali giovanili in un mondo dagli orizzonti sempre più angusti e sordidi.
Romanzo fluviale e corale, è assemblato in tre parti: quella di mezzo si svolge molti anni dopo le altre due, e fornisce chiavi di lettura sempre diverse attorno ai due protagonisti, Arturo Belano (alter ego dell’autore) e Ulises Lima, a seconda delle versioni fornite da schegge di conversazioni carpite senza un ordine apparente tra amici e conoscenti dei due, partiti forse sulle tracce di una poetessa ignota di cui il loro gruppo si ritiene seguace. Sono diversi gli ambienti ricostruiti da Bolaño in questa trasversalissima odissea, ma sembra evidente che oggetto dei suoi strali sono soprattutto quegli intellettuali che patteggiano con il potere e cercano il successo appiattendo ogni valore artistico e umano.
A cura di Wuz.it
Le prime frasi del romanzo:
2 novembre
Sono stato cordialmente invitato a far parte del realismo viscerale. Naturalmente, ho accettato. Non c’è stata cerimonia di iniziazione. Meglio così.
3 novembre
Non so bene in cosa consista il realismo viscerale. Ho diciassette anni, mi chiamo Juan García Madero, sono al primo semestre di giurisprudenza. Io non volevo studiare giurisprudenza, bensì lettere, però mio zio insisteva e alla fine ho dovuto cedere. Sono orfano. Diventerò avvocato. Fu questo quel che dissi a mio zio e a mia zia e poi mi chiusi in camera e piansi tutta la notte. O almeno una buona parte. Poi, con apparente rassegnazione, entrai alla gloriosa Facoltà di Giurisprudenza, ma dopo un mese mi iscrissi al seminario di poesia di Julio César Álamo, alla Facoltà di Lettere e Filosofia, e così conobbi i realvisceralisti, o viscerrealisti o perfino vicerealisti, come a volte gradiscono farsi chiamare. Fino ad allora ero stato solo quattro volte al seminario e non era mai successo niente, dico per dire, perché a ben pensarci succedeva sempre qualcosa: leggevamo poesie, e Álamo, a seconda dell’umore, le lodava o le polverizzava: uno leggeva, Álamo criticava, un altro leggeva, Álamo criticava, un altro ancora leggeva, Álamo criticava. A volte Álamo si annoiava e diceva (a quelli che in quel momento non stavano leggendo) di criticare anche noi, e allora noi criticavamo e Álamo si metteva a leggere il giornale.
Era il metodo perfetto perché nessuno fosse amico di nessuno o perché le amicizie si fondassero sulla malattia e sul rancore. D’altra parte non posso dire che Álamo fosse un buon critico, anche se parlava sempre di critica. Adesso credo che parlasse per parlare. Sapeva cos’era una perifrasi, non benissimo, ma lo sapeva. Non sapeva, però, cosa fosse una pentapodia (la quale, come tutti sanno, nella metrica classica è un sistema di cinque piedi), non sapeva nemmeno cosa fosse un nicarcheo (che è un verso simile al falecio), né cosa fosse un tetrastico (che è una strofa di quattro versi). Come faccio a sapere che non lo sapeva? Perché commisi l’errore, il primo giorno di seminario, di domandarglielo. Non so cosa mi fosse saltato in testa. L’unico poeta messicano che sa a memoria queste cose è Octavio Paz (il nostro grande nemico), tutti gli altri non ne hanno la più pallida idea, almeno questo è quanto mi disse Ulises Lima qualche minuto dopo che entrassi e fossi amichevolmente accolto nelle file del realismo viscerale. Facendo quelle domande a Álamo avevo dato prova, come non tardai ad accorgermi, della mia mancanza di tatto. All’inizio pensai che il sorriso che mi rivolgeva fosse di ammirazione. Poi mi resi conto che era di disprezzo. I poeti messicani (immagino i poeti in genere) detestano che gli si ricordi la loro ignoranza. Ma io non mi lasciai intimorire e dopo essermi visto distruggere un paio di poesie al secondo seminario cui partecipai, gli domandai se sapesse cos’era un rispetto. Álamo pensò che gli stessi chiedendo rispetto per le mie poesie e giù a parlare di critica obiettiva (tanto per cambiare), che è un campo minato che ogni giovane poeta deve attraversare, eccetera, ma io non lo lasciai continuare e dopo avergli spiegato che mai nella mia breve vita avevo preteso rispetto per le mie povere creazioni tornai a formulargli la domanda, questa volta cercando di scandire la parola con la maggiore chiarezza possibile.
— Non tirarmi fuori cazzate, Garcia Madero — disse Álamo. — Un rispetto, caro maestro, è un genere di componimento lirico, amoroso per essere più esatti, simile allo strambotto, composto di sei o otto endecasillabi, i primi quattro in forma di sirventese e i seguenti in distici rimati. Per esempio... — e già mi preparavo a fargli uno o due esempi quando Álamo si alzò di scatto e diede per conclusa la discussione. Quel che accadde dopo è confuso (anche se ho buona memoria): ricordo la risata di Álamo e le risate dei miei quattro o cinque compagni di seminario, probabilmente a una felice battuta consumata alle mie spalle.
Un altro, al posto mio, non avrebbe più rimesso piede là dentro, ma io, malgrado gli infausti ricordi (o malgrado l’assenza di ricordi, in quel caso altrettanto se non più infausta della conservazione mnemonica degli stessi), la settimana dopo ero di nuovo li, puntuale come sempre.
