È paradossale che alla ricchezza e problematicità della storia politica e sociale degli anni settanta non corrisponda una produzione letteraria altrettanto forte. A parte pochi casi, come per esempio i romanzi di uno scrittore che si è dedicato moltissimo all'indagine retrospettiva di quella stagione, Stefano Tassinari, con alcuni titoli esemplari come L'ora del ritorno, L'amore degli insorti, e l'ultimo libro di storie D'Altri tempi. Pochi altri hanno affrontato così felicemente quelli che il poeta Gianni D'Elia ha definito in un suo libro sempre su quel periodo, lirico e dalla prosa furiosa, "gli anni giovani", uno per tutti Bruno Arpaia con Il passato davanti a noi. Adesso arriva un libro di cui si avverte la necessità, Il diario ritrovato, scritto da Sergio Sinigaglia, già autore del memoir della sua esperienza politica in Lotta Continua con Di lunga durata, e (con Francesco Barilli) di La piuma e la montagna, storie degli anni '70, tutti situati sulla stessa linea tematica. A differenza degli altri, questa volta si tratta di un vero romanzo, nel senso della forma, che però utilizza diversi registri narrativi e un escamotage che dà la stura al racconto. Un ragazzo di oggi (si chiama Paolo ed è studente delle medie), in attesa dei genitori in un villino di montagna, è alle prese con la lettura del libro delle vacanze, Il barone rampante di Italo Calvino, che un po' diventa la spia letteraria di un'altra esplorazione, che strappa alla realtà per raggiungere gli abissi dell'immaginazione storica. Solo che la sua lettura sarà un'altra, perché in soffitta, invece che su un albero, troverà in una vecchia cassapanca polverosa il suo libro di avventure, quel diario che dà titolo al libro e può configurarsi come un'autobiografia generazionale, ma anche la vicenda politica e personale dello zio Roberto, morto anni prima, una specie di fantasma che torna dal passato. Il diario ha una durata breve, otto mesi, ma incrocia con grande intensità le esperienze e la visione internazionalista di una generazione che attraverso la politica cercava di interpretare le profonde trasformazioni in corso, e i legami economici, culturali e sociali di diverse geografie del mondo. Frutto di un'accurata ricerca, che l'autore evidenzia nella nota finale, e di una memoria di narrazioni orali, questa storia recente è però abilmente trasformata in incandescente materia narrativa di un quotidiano che sembrava lontanissimo e che nella sua ricostruzione rivive agli occhi del lettore-protagonista, come dei nostri. Roberto, il metanarratore, in quel lontano 1975 è militare di leva, vive l'esperienza dei "proletari in divisa", un'organizzazione nata nel cuore di Lotta Continua per fare attività politica nelle caserme, incrocia momenti di storia non solo italiana (l'avanzata del PCI alle elezioni del giugno 1975, le Brigate rosse, la guerra in Vietnam); uno dei pregi maggiori del romanzo è proprio quella di ricomporre il vissuto da un punto di vista espressivo, recuperandone i sentimenti dell'esperienza. Il romanzo si colloca tra lo ieri e l'oggi, portando il passato dentro il presente, ma in un presente in cui i conflitti di allora torneranno nella resa dei conti tra Paolo e suo padre Antonio, il fratello di Roberto, figura tipica dell'inettitudine italiana, tutto chiuso in una cinica e borghese Realpolitik. In questo rispecchiamento di esperienze, il giovane lettore recupera la figura del parente lontano che vive il suo apprendistato di militante e di ragazzo, quel ragazzo, di cui parlava uno scrittore morto prematuramente, Pier Vittorio Tondelli, che all'inizio degli terribili anni ottanta celebrava così quella stagione piena di passione: "Ripensare oggi a quegli anni, ricercare nel ricordo quel ragazzo, tra le lettere che ha scritto, le pagine che ha inviato agli amici, le fotografie, le registrazioni, è cercare nel doppio dell'esperienza (non quella che fu, ma quella di cui abbiamo conservato un riverbero nella memoria), motivazioni e atteggiamenti che sembrano appartenuti, in realtà, a un'altra persona (
). Forse di quegli anni, quel ragazzo e io rivorremmo un po' di progettualità e di tensione ideale". E proprio questa mi sembra, alla fine, l'intenzione politica e narrativa di Sinigaglia e di questo libro intenso, dalla scrittura controllata e tesa, che non è progettato per celebrare con nostalgia, anche se a tratti ci fa rivivere con tenerezza il nostro "posto delle fragole", ma diventa il racconto di una generazione ribelle che voleva la luna, e di un'altra già cancellata e precarizzata dai mercati neoliberisti, che è disperatamente alla ricerca di una luce.
Angelo Ferracuti
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