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Ingeborg Bachmann seppe usare genialmente la radio per scrivere saggi a più voci che hanno ancora natura d’etere e riescono a trasmettere, come una vibrazione, lo stato di grazia che scaturisce dall’incontro con grandi scrittori – in questo caso Musil, Wittgenstein, Simone Weil e Proust. Esemplare è l’esposizione del pensiero di Wittgenstein, che prende, nello svolgersi di pagina in pagina, nelle citazioni reiterate dal Tractatus, un tono commosso, di emozione sospesa. In poche linee è illuminata l’opera, ma anche il pensatore: vediamo sullo sfondo un Wittgenstein schivo, imbozzolito nel silenzio, così come di Musil, in poche righe, ci è data la ricostruzione partecipe di un’esistenza tutta tesa a un solo scopo. Ma non meno impressionante è la vivezza con cui vengono rivendicate l’opera della Weil e quella «dura, rivoluzionaria» di Proust. Clamorosa dimostrazione della possibilità di spiegare un autore con la chiarezza massima, eppure mantenendosi al più alto livello, questi saggi – tra i quali corrono rinvii segreti, parole-spia quali «mistica» e «orrore»- fanno sì che la Bachmann, parlando di chi ama, parli di sé, come lasciando circolare un’unica linfa.
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Quattro "saggi radiofonici" composti e trasmessi negli anni Cinquanta, presentano il pensiero e l’opera di Robert Musil, Marcel Proust, Simone Weil e Ludwig Wittgenstein. Ciò che accumuna questi quattro alla poetica e agli interessi di Ingeborg Bachmann sono due elementi: l'esplorazione dei limiti delle possibilità del linguaggio e una passione, "fredda e singolare", per l'esattezza. Muovendosi dunque sul filo del paradosso, ci confrontiamo - da angolature diverse e lontanissime - con la constatazione che, come osserva Wittgenstein, "ciò di cui possiamo parlare non ha valore, e di ciò in cui risiede il valore non possiamo parlare". Ma ciò non sbarra la via, anzi è proprio da qui che si spalancano le vie della poesia, della letteratura, dell'arte e della fede.
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Italia, 1954-55: il "caso Montesi" infiamma l'opinione pubblica, la Fiat prepara il lancio della nuova 600, le diplomazie internazionali sciolgono il nodo di Trieste, Gronchi è eletto presidente della Repubblica. A informare il pubblico tedesco di quanto avviene nella penisola vi è una cronista di eccezione: si firma Ruth Keller, ma il suo vero nome è Ingeborg Bachmann. In Italia è già arrivata nel 1953 in compagnia del compositore Hans Werner Henze, sulla scia dell'entusiasmo suscitato dalla pubblicazione del suo primo volume di poesie. A Roma abita da qualche mese e ha estremo bisogno di soldi. Così, quando un amico le propone di collaborare a Radio Brema, è ben lieta di farlo. "Grazie per il salvataggio", scrive, lieta per la sollecitudine nei pagamenti. Come se la cava la giovane poetessa di Klagenfurt nei panni di corrispondente dall'estero? Il suo stile radiofonico è perfetto, frutto di una professionalità già appresa a Vienna nel dopoguerra, presso l'emittente Rot-Weiß-Rot. Molto meno interessante è il contenuto delle sue cronache. Il minimo che si possa dire è che la scrittrice si attiene ai cliché della guerra fredda sulla politica italiana. I comunisti si preparano all'ora X, Scelba difende con vigore gli interessi dei paesi occidentali, il caso Montesi è politicamente una "montatura" del partito di Togliatti. E, sebbene la corrispondente romana si trinceri dietro un professionale "si afferma che", non c'è dubbio che il suo intento è di rassicurare l'ascoltatore medio tedesco nei propri giudizi sull'Italia. La sua scelta di campo è palese. Più vivaci appaiono le cronache quando si passa dalla politica alla società. Ma anche qui affiorano gli stereotipi sul Mezzogiorno "arretrato come nell'età dei Borboni", sull'inflazione che erode gli stipendi dell'"uomo della strada", mentre i caffè di via Veneto, abusato simbolo di un lusso destinato agli Americani, appaiono ogni volta in stridente contrasto con le preoccupazioni della vita quotidiana. C'era proprio bisogno di disseppellire queste corrispondenze dall'archivio di Radio Brema, presentandole pomposamente come una "riscoperta", con tanto di appendice critica sulle (pochissime) correzioni redazionali? Avrebbe approvato la scrittrice di Klagenfurt la ripubblicazione con il suo nome di questi lavori, non a caso firmati con uno pseudonimo? E non è un discutibile paradosso rendere pubblici tali scritti, mentre si nega ancora l'accesso a preziosi documenti (tra l'altro il carteggio con Celan) gelosamente custoditi negli archivi? Quale distanza, ad ogni modo, dal raffinato saggio su Roma di appena un anno più tardi, quel Ciò che ho visto e ho sentito a Roma che, insieme alle contemporanee poesie sull'Italia, dice molto di più sul nostro paese di ogni cronaca politico-sociale scritta per sopravvivere. E ben diversi, per spessore e interesse, sono anche i saggi radiofonici degli anni cinquanta che ora Adelphi pubblica in italiano sotto il titolo Il dicibile e l'indicibile, in cui la Bachmann si misura con quattro autori per lei fondamentali: Wittgenstein, Musil, Proust e Simone Weil. La scelta di isolare questi scritti dal vasto corpus saggistico della Bachmann (che aspetta ancora di essere tradotto nella sua interezza) è senz'altro felice, perché permette di cogliere la qualità di un genere (quello, inconsueto, del saggio radiofonico) di cui l'autrice era padrona sino al virtuosismo, sebbene in tal modo si perda di vista il collegamento con gli altri saggi non destinati alla radio, e in particolare con altri due studi paralleli su Wittgenstein e Musil, un deficit, comunque, più che compensato dall'ottima cura redazionale, particolarmente complessa per il gran numero di citazioni. La perfetta drammaturgia "musicale" (un'alternanza di voci) con cui la Bachmann introduce i "suoi" autori si legge oggi come un prezioso tassello della storia culturale del Secondo Novecento. È anche per merito di questi contributi se la cultura tedesca del dopoguerra ha "riscoperto" Musil e Wittgenstein, pressoché dimenticati all'epoca. Ma nell'insieme il libro è anche un documento importante per comprendere le posizioni poetiche della stessa Bachmann, che nel confronto con gli autori trattati mette a nudo le questioni di fondo della propria opera: il "silenzio di Dio" e l'inspiegabilità del mondo nell'orizzonte della tecnica, il rifiuto della fede come rimozione del male, la bellezza come apertura al dolore e all'alterità, la letteratura come utopia. Queste costanti ritornano ancora negli anni sessanta nelle ultime poesie di Ingeborg Bachmann, che ora Hans Höller - uno dei suoi più accreditati studiosi - ci presenta in una minuziosa ricostruzione degli abbozzi e delle varianti, a ulteriore testimonianza dell'importanza che la critica filogenetica sta assumendo nel panorama di lingua tedesca. Insieme a tre celebri composizio-ni (Keine Delikatessen, Enigma, La poesia si fa qui disperata "patografia" di un Io attraversato dalla storia. Con estrema lucidità l'autrice ha del resto sempre assunto la propria esperienza personale come segnatura dell'epoca. Con altrettanta lucidità Ingeborg Bachmann ha però difeso il margine privato della sua esistenza. Tanto più doloroso appare dunque il saccheggio della biografia sistematicamente condotto ai suoi danni subito dopo la tragica morte. Non solo l'opera viene frequentemente descritta in termini psicologici, ma la stessa persona è rievocata in forma sensazionalistica. In un saggio ben documentato, Klaus Amann ha preso in considerazione testi letterari di Kurt Klinger, Hans Weigel, Hermann Hakel e Adolf Opel (quest'ultimo in particolare), che appaiono rappresentativi delle fantasie maschili con cui la carriera letteraria di Ingeborg Bachmann è stata commentata. Una lettura molto istruttiva.
Bachmann, Ingebor, Römische reportegen. Eine Wiederentdeckung, Piper, 1998
Bachmann, Ingebor, Il dicibile e l'indicibile, Adelphi, 1998
Bachmann, Ingebor, Letze, unveröffentlichte Gedichte, Entwürfe und Fassungen, Suhrkamp, 1998
Amann, Klaus, "Den ich habe zu schreiben. Und über den Rest hat man zu schweigen". Ingeborg Bachmann und die literarische Öffentlichkeit, Drava, 1997
recensioni di Reitani, L. L'Indice del 1999, n. 02
Böhmen liegt am Meer) che, pubblicate nel 1968 dalla rivista "Kursbuch", segnarono in qualche modo l'addio alla poesia della scrittrice - e che vengono qui presentati per la prima volta nelle loro diverse fasi e stesure - il libro comprende un gruppo di poesie inedite, di grande interesse, che risalgono al periodo berlinese della Bachmann e a un viaggio a Praga nel 1964. Tutti i manoscritti sono riprodotti fotograficamente, con una estrema semplificazione del'apparato critico e un esaustivo commento. Höller mostra assai bene (forse con eccessiva insistenza) l'intreccio di temi e motivi che lega queste poesie alla prosa del ciclo Todesarten, sfatando il luogo comune del ripudio della lirica da parte della scrittrice. La scissione dell'Io, ad esempio, - centrale nel romanzo Malina - è in un certo senso leggibile nella stessa tormentata stesura dei testi poetici, in cui si presenta una voce irriducibilmente soggettiva, che la revisione formale tende sistematicamente a marginalizzare e infine a espellere.
Ingeborg Bachmann seppe usare genialmente la radio per scrivere saggi a più voci che hanno ancora natura d’etere e riescono a trasmettere, come una vibrazione, lo stato di grazia che scaturisce dall’incontro con grandi scrittori – in questo caso Musil, Wittgenstein, Simone Weil e Proust. Esemplare è l’esposizione del pensiero di Wittgenstein, che prende, nello svolgersi di pagina in pagina, nelle citazioni reiterate dal Tractatus, un tono commosso, di emozione sospesa. In poche linee è illuminata l’opera, ma anche il pensatore: vediamo sullo sfondo un Wittgenstein schivo, imbozzolito nel silenzio, così come di Musil, in poche righe, ci è data la ricostruzione partecipe di un’esistenza tutta tesa a un solo scopo. Ma non meno impressionante è la vivezza con cui vengono rivendicate l’opera della Weil e quella «dura, rivoluzionaria» di Proust. Clamorosa dimostrazione della possibilità di spiegare un autore con la chiarezza massima, eppure mantenendosi al più alto livello, questi saggi – tra i quali corrono rinvii segreti, parole-spia quali «mistica» e «orrore»- fanno sì che la Bachmann, parlando di chi ama, parli di sé, come lasciando circolare un’unica linfa. Questi saggi radiofonici furono trasmessi tra il 1952 e il 1958.
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