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Nell'ultima pagina del volume di Dario Biagi, che commenta la scomparsa del più potente agente letterario italiano e europeo del dopoguerra, il 22 marzo 1983, si legge: "Di certo Erich Linder esce di scena al momento giusto: un attimo prima che il suo dominio vacilli e si imponga il nuovo scenario frazionato". Complementarmente, poche righe dopo, vengono citate alcune parole del figlio, Dennis Linder: "Mio padre aveva colmato una lacuna creatasi con la guerra: con l'isolamento dell'Italia e della Germania dagli altri paesi". Insomma, il patron dell'Ali l'Agenzia letteraria internazionale di Augusto e Luciano Foà dove Linder comincia a costruire più di trent'anni prima il suo "impero" (cui è dedicato il primo capitolo) entra ed esce di scena al momento giusto. Non è da tutti. E anche solo per questo dato varrebbe la pena di leggere la vita del dio di carta scritta dal giornalista e biografo (anche di Giuseppe Berto, Gian Carlo Fusco), ma tenendo a mente l'avvertenza della breve introduzione: "Al biografo non bastano le carte: serve anche un personaggio". E del dio di carta, in tal senso, si evocano, non proprio casualmente, "le vicissitudini giovanili nell'Italia nazifascista e antisemita"; quelle vicissitudini che possono tradursi in "un avvincente romanzo d'avventure ancora da scrivere, il vero romanzo della sua vita" e che animano il lungo flashback del secondo capitolo, titolato, con eco siloniana, L'avventura di un povero ebreo. Del resto, non è facile scrivere la vita anche il romanzo della vita di un uomo che ha passato quasi tutta la sua esistenza a tavolino, leggendo, talora traducendo e poi soprattutto curando rapporti e contratti editoriali.
Neanche due mesi dopo la scomparsa di Linder, nel maggio 1983, esce Lo stadio di Wimbledon, primo romanzo di Daniele Del Giudice, "insolito libro", suggeriva Calvino nella quarta di copertina, dedicato a un altro dio di carta, Roberto Bazlen detto "Bobi" (1902-1965), "un uomo per Montale a cui piaceva vivere negli interstizi della cultura e della storia". E altri dei di carta e altri uomini loro pari abiteranno la nostra narrativa "biografica", negli anni a venire: basta pensare a Giacomino (1994), dedicato a Giacomo Debenedetti (1901-1967) dal figlio Antonio. Negli ultimi due decenni del XX secolo, un certo mondo editoriale italiano e la storia e la cultura che lo avevano reso possibile, nel secondo dopoguerra, nella ricostruzione, sparisce e diventa, quasi subito, "mito". Certo, Linder, che lascia poche tracce "creative" (distrugge i diari, non piazza tutte le traduzioni), che è più giovane di Bobi e Giacomino (nasce nel 1924), che non è un "letterato editore" (per dirla con Cadioli), ha bisogno di più tempo per emergere e unirsi alla schiera di coloro che possono fare da contraltare a un periodo di transizione e di crisi che dalla fine degli anni sessanta e dal decennio dei settanta arriva fino ai nostri giorni.
Gli studi sull'editoria di Ferretti, peraltro giustamente e più di una volta citati da Dario Biagi come punti di riferimento, possono spiegarci come sono andate le cose, cifre (e non solo) alla mano, ma non possono agganciare del tutto il "mitico" mondo letterario del dopoguerra che personaggi come Linder hanno contribuito a creare. Il rischio è l'agiografia, e Dario Biagi lo sa; sposa, allora, il divertissement, con giochi di parole che si impongono fin dai titoli di alcuni capitoli, il terzo su tutti, Colpo d'Ali. Tuttavia la passione resta, tanto che deve tenere a bada il suo entusiasmo iterando formule come "ma procediamo con ordine". Belle sono, comunque e significativamente, le pagine sul "secondo Linder" ("il promotore culturale, l'elaboratore di idee e progetti editoriali") e la "visione geopolitica" dell'editoria che ne discende e che lo fa sentire cofondatore dell'Adelphi. Luciano Curreri
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