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Il libro di Massimo Fusillo indaga con grande attenzione e curiosità appassionata la presenza nel secolo appena trascorso della dimensione dionisiaca: la presenza cioè di una trasgressione quintessenziale che è prima di tutto trasgressione del limite rappresentato da ogni esclusività e da ogni definizione ontologica, e si risolve dunque nella valorizzazione massima dell'ambiguità, cui allude il titolo Il dio ibrido: icona della libertà e della possessione, dell'euforia e della distruzione, della saggezza e della follia, immagine insieme umana e divina, umana e animale, maschile e femminile, giovane e vecchia, singola e collettiva, familiare e aliena, questo è ciò che ci arriva con forza immutata dalle Baccanti, l'ultimo capolavoro di Euripide.
Una rassegna delle riproposizioni di questa tragedia nel teatro, e in misura minore nel cinema novecentesco, occupa la seconda delle tre parti in cui si articola il volume, privilegiando per ampiezza e profondità di discussione la riscoperta sessantottesca di Richard Schechner, la lunga e progressiva ricerca di Ronconi, le letture transculturali di Soyinka e Suzuki, la violenza estrema di Klaus-Michel Grüber, e due esperienze operistiche, quella di Henze e quella commissionata da Ingmar Bergman a Daniel Börtz.
La terza parte è invece dedicata a una serie di riscontri più elastici della tematica dionisiaca nel medesimo ambito culturale. Non più le Baccanti messe in scene e neppure riscritte, ma al massimo spostate a interagire con un ambiente cristiano nel Re Ruggero di Szymanowski, specializzando il messaggio dionisiaco nella seduzione amorosa, come avviene anche in Teorema di Pasolini e, contaminato con una strategia progressiva di annientamento, in Morte a Venezia.
La parte più importante del libro è però la prima, che fornisce la possibilità di inquadrare le singole letture in un quadro di tematiche e di valori costitutivi della civiltà dionisiaca classica, ma che hanno trovato nella contemporaneità fertile terreno di fioritura e rigenerazione. Questa vasta pratica di comparazione è indispensabile a una lettura corretta della nostra civiltà, non per rintracciarvi in termini valutativi un'altrettanto corretta ricezione dell'antico: piuttosto per lo scopo contrario, di leggere nella trama sistematica delle divergenze e dei travisamenti, una volta che siano riconosciuti per tali, l'anima viva della modernità e insieme un prezioso segnale di problematicità, vale a dire di vitalità, del testo classico.
Studioso a sua volta di estrazione classica, Fusillo possiede in alto grado le competenze necessarie all'operazione, ma soprattutto possiede la dote più preziosa e rara, un atteggiamento culturale e mentale che porta a leggere la tradizione in modo non gerarchico, né come progresso né, cosa che tanto più spesso avviene, come degrado, ma alla luce di un interesse e di un amore comune. Antico/moderno è dunque la meta-opposizione che regge, nel suo discorso, tutto il fascio delle specularità e delle antinomie prima sommariamente elencate.
L'autore insiste a ragione sul fatto che queste antinomie sono destinate non all'esplosione e al caos, ma alla ricodificazione in un ordine: ma il fatto che le Baccanti siano allo stesso titolo un capolavoro di compattezza artistica e il maggior relitto di una religione, o piuttosto di una civiltà sconosciuta, rende questo stesso ordine ancora una volta ambiguo, dal momento che la sua organizzazione è affidata contemporaneamente ai codici contraddittori del tempo circolare del rito e del tempo lineare del dramma. L'iniziazione o conversione di Penteo, il re oppositore di Dioniso, è infatti anche una punizione per la colpa tradizionale di aver oltrepassato i limiti dell'umano (il thnetà phronein); la sua morte per sbranamento (sparagmos) realizza insieme una cerimonia sacrale e l'uccisione ignara di un figlio da parte della madre, evento che Aristotele considerava addirittura definitorio della tragedia. Tra l'eudemonismo religioso e l'amarezza del lutto, qui più che mai difficile da elaborare, resta una distanza forse insanabile, che è forse all'origine della sfida ermeneutica e si riflette nel disagio delle letture novecentesche, alle quali non risulta accettabile il trionfo finale di Dioniso, feroce e autoritario com'è: se Soyinka, Grüber e Suzuki lo censurano, Ronconi e Bergman lo investono di un parallelismo con la tirannide iniziale di Penteo che suona delusione e condanna, doccia fredda sull'ideale della socialità gioiosa che scaturisce dalla fusione di esperienze e culture, e in cui Fusillo vede la speranza progressiva della nostra attualità.
L'uso della categoria del doppio all'interno del conflitto fra Dioniso e Penteo è generalizzato nel teatro contemporaneo, raggiungendo forse il vertice espressivo nel dialogo allo specchio recitato da Marisa Fabbri per Ronconi nell'edizione pratese del 1977. Fusillo (che proprio al doppio ha dedicato qualche anno fa una monografia rilevante) ne affronta le ambivalenze costitutive con l'aiuto di uno strumento gnoseologico tutt'altro che banale, la psicoanalisi post-freudiana di Matte Blanco, in base alla quale Dioniso incarna il modo di essere "simmetrico", quello cioè che ammettendo la reversibilità di tutte le proposizioni presuppone come riferimento l'unità indivisa e totalizzante del mondo, e non è affatto limitato all'inconscio, ma concerne tutti i livelli della cognizione emotiva.
Di contro, Penteo, tutore dichiarato dell'ordine sociale, dovrebbe rappresentare l'esercizio della razionalità la proclama invece senza rappresentarla, aprendo il significativo crepaccio tra ragione e razionalizzazione. Il suo terrore dell'eccesso sessuale che Dioniso potrebbe diffondere in Tebe è con ogni evidenza un fenomeno di totalizzazione, e con altrettanta evidenza è un'emozione, una sindrome ansiosa che immette nel campo di quella stessa follia da lui rimproverata alla controparte. Se nella stessa teoria di Matte Blanco la logica delle emozioni non è mai autonoma, perché senza appoggiarsi alla logica tradizionale non potrebbe neppure esprimersi, le Baccanti forniscono un esempio eloquente del condizionamento opposto. Si ha dunque un'invasività della follia, che per Dioniso e i suoi seguaci risulta essere, più che mai ambiguamente, demonizzazione esterna e rivendicazione propria, quest'ultima scritta nella stessa denominazione, giacché nel termine "menade" c'è appunto la radice della pazzia: e dunque dentro l'opposizione tra saggezza e follia se ne ricava una tra la follia intesa come marchio reciproco di esclusione e quella intesa come espansione della fantasia e dell'energia
Guido Paduano
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