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Prefazione di Moni Ovadia.
“Abbiamo sofferto tanto: esilio, ghetti, pogrom... Però li abbiamo fregati”. “E come?” “Con la psicoanalisi.” In questa storiella c’è il tratto distintivo dell’umorismo ebraico mitteleuropeo, quello speciale modo di ridere di sé e degli altri che non ha simili nel resto della cultura occidentale. E che soprattutto è lontanissimo dalla tradizione cristiana, che colpevolizza il riso e lo scherzo attribuendoli al maligno: nel Nuovo Testamento non si ride mai.
Dalle origini a oggi, dall’Europa agli Stati Uniti d’America, l’assillo umoristico è stato un tratto saliente dell’identità ebraica. Non è quasi mai una risata grassa, dalla fisicità prorompente, ma piuttosto un rumore lieve, un fremito delle narici e uno scintillio degli occhi.
Moni Ovadia ne spiega l’umanità profonda: “Si tratta di una sorta di filosofia surreale e disarmata che demolisce la rigidità del pregiudizio e smobilita una visione sclerotizzata dell’ebreo avido, sinistro e taccagno a favore del riconoscimento dell’ebreo che è in ogni individuo autenticamente umano: fragile, goffo, ciarlatano, opportunista, ma anche sublime nel suo essere disposto a ridere sgangheratamente di se stesso perfino sul limitare della propria tomba o sull’orlo dell’abisso.”
Ciononostante, le storielle presentate qui non temono di affrontare i tratti considerati più caratteristici del popolo ebraico, a partire dalla proverbiale avarizia, come nel caso del matrimonio in cui il padre della sposa annuncia: “Figli e figlie di Israele, poiché oggi siamo ricolmi di gioia, non dimentichiamo i poveri. Anzi, vi chiedo di gridare insieme a me: Evviva i poveri...”; o l’ossessione della ghettizzazione, come nella storia dell’uomo che corre alla stazione per prendere il treno, ma arriva con un attimo di ritardo ed esclama: “Che cattiveria! Anche il treno è diventato antisemita”; o, infine, il sorriso amarissimo degli apolidi: “Dove vai, Avramole?” “Vado lontano, Mendele.” “Ma vai lontano da dove, Avramole?”
“Abbiamo sofferto tanto: esilio, ghetti, pogrom... Però li abbiamo fregati”. “E come?” “Con la psicoanalisi.” In questa storiella c’è il tratto distintivo dell’umorismo ebraico mitteleuropeo, quello speciale modo di ridere di sé e degli altri che non ha simili nel resto della cultura occidentale. E che soprattutto è lontanissimo dalla tradizione cristiana, che colpevolizza il riso e lo scherzo attribuendoli al maligno: nel Nuovo Testamento non si ride mai.
Dalle origini a oggi, dall’Europa agli Stati Uniti d’America, l’assillo umoristico è stato un tratto saliente dell’identità ebraica. Non è quasi mai una risata grassa, dalla fisicità prorompente, ma piuttosto un rumore lieve, un fremito delle narici e uno scintillio degli occhi.
Moni Ovadia ne spiega l’umanità profonda: “Si tratta di una sorta di filosofia surreale e disarmata che demolisce la rigidità del pregiudizio e smobilita una visione sclerotizzata dell’ebreo avido, sinistro e taccagno a favore del riconoscimento dell’ebreo che è in ogni individuo autenticamente umano: fragile, goffo, ciarlatano, opportunista, ma anche sublime nel suo essere disposto a ridere sgangheratamente di se stesso perfino sul limitare della propria tomba o sull’orlo dell’abisso.”
Ciononostante, le storielle presentate qui non temono di affrontare i tratti considerati più caratteristici del popolo ebraico, a partire dalla proverbiale avarizia, come nel caso del matrimonio in cui il padre della sposa annuncia: “Figli e figlie di Israele, poiché oggi siamo ricolmi di gioia, non dimentichiamo i poveri. Anzi, vi chiedo di gridare insieme a me: Evviva i poveri...”; o l’ossessione della ghettizzazione, come nella storia dell’uomo che corre alla stazione per prendere il treno, ma arriva con un attimo di ritardo ed esclama: “Che cattiveria! Anche il treno è diventato antisemita”; o, infine, il sorriso amarissimo degli apolidi: “Dove vai, Avramole?” “Vado lontano, Mendele.” “Ma vai lontano da dove, Avramole?”
Prefazione di Moni Ovadia
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