Cade in profondo imbarazzo chi si appresti a scrivere brevemente dell'ultimo libro di Stefano Rodotà, dopo aver riletto le parole di Cesare Cases sulla funzione della recensione: "L'essenziale è che il primo momento, cioè l'esposizione del contenuto, abbia la centralità che gli spetta. La connivenza con il lettore, non dovendo stabilirsi (
) né attraverso l'interesse specialistico né attraverso lusinghe formali, è solo il contenuto a determinarla" (cfr. "L'Indice", 1984, n. 1). Il motivo dell'imbarazzo è presto detto: ci troviamo dinanzi a una specie di summa del pensiero di Rodotà, in cui si intrecciano e si fondono temi di un'intera vita di studi, a partire da quelle Note critiche in tema di proprietà ("Rivista trimestrale di diritto e procedura civile", 1960), che ci rivelano il volto già maturo di un giurista (a quel tempo, ma frequentemente ancora oggi) atipico, attento a cogliere "il pieno rigoglio di questo mondo nuovo, in cui si scorgono i segni di meravigliosi svolgimenti pur nelle strutture giuridiche" (ivi). Non vi è quindi pagina, fra le oltre quattrocento in cui si distende il contenuto di quest'opera, che non offra ragioni di essere segnalata. Tanto che verrebbe voglia di non entrare in alcun dettaglio di contenuto, per evitare di arrecare ingiustizia a ciascuno degli altri temi, tutti meritevoli di essere menzionati. Potremmo semplicemente dire allora: se il diritto gode oggi di una rinnovata, fortunata stagione, "non più riservato a piccole cerchie di iniziati ai suoi formalismi tecnici, non più confinato nell'angusto perimetro delle esercitazioni accademiche" o della pratica professionale; se il diritto ci appare oggi affrancato dalla sua tradizionale "separatezza" rispetto alle correnti culturali contemporanee e coinvolto nei dibattiti dell'opinione pubblica che toccano temi centrali della vita individuale delle persone, nonché della vita collettiva delle comunità, lo si deve in modo decisivo alle opere di studiosi come Rodotà. "Il diritto ad avere diritti, o il diritto di ogni individuo ad appartenere all'umanità, dovrebbe essere garantito dall'umanità stessa". Il libro reca questa epigrafe, tratta dall'opera classica di Hannah Arendt (Le origini del totalitarismo, 1951; Einaudi, 2004) e sollecita così a constatare una certa tensione tra gli sviluppi del pensiero dei due autori. Per Arendt il diritto di avere diritti non è garantito dall'umanità stessa. Al contrario: "La concezione dei diritti umani è naufragata nel momento in cui sono comparsi individui che avevano perso tutte le altre qualità e relazioni specifiche tranne la loro qualità umana (
). I superstiti dei campi di sterminio, gli internati dei campi di concentramento e gli apolidi hanno potuto rendersi conto (
) che l'astratta nudità dell'essere-nient'altro-che-uomo era il loro massimo pericolo (
). Se un individuo perde il suo status politico, dovrebbe trovarsi, stando alle implicazioni degli innati e inalienabili diritti umani, nella situazione contemplata dalle dichiarazioni che li proclamano. Avviene esattamente l'opposto: un uomo che non è altro che un uomo sembra aver perso le qualità che spingevano gli altri a trattarlo come un proprio simile". Si scorgono tracce della vicenda personale dell'autrice, profuga ebrea perseguitata dal nazismo, costretta a ricostruire negli Stati Uniti la tela della sua "vita spezzata" (Noi Profughi, in Hannah Arendt, Ebraismo e modernità, Feltrinelli, 2001). Non è certo idilliaca la concezione che Rodotà contrappone nella sua opera alle aspre pagine di Arendt: "Diritti senza terra vagano nel mondo globale alla ricerca di un costituzionalismo anch'esso globale che offra loro ancoraggio e garanzia. Orfani di un territorio che dava loro radici e affidava alla sovranità nazionale la loro concreta tutela, sembrano ora dissolversi in un mondo senza confini dove sono all'opera poteri che appaiono non controllabili (
). È questo il mondo nuovo dei diritti. Un mondo non pacificato, ma ininterrottamente percorso da conflitti e contraddizioni, da negazioni spesso assai più forti dei riconoscimenti". Un'analisi serrata dei riconoscimenti e delle negazioni dei diritti percorre tutto il libro, di cui vogliamo indicare almeno i titoli dei capitoli, per risvegliare una vaga idea della ricchezza di contenuti: spazio e tempo dei diritti, spazio dell'Europa, mondo nuovo dei diritti, mondo delle persone, mondo dei beni, dal soggetto alla persona, dignità umana, diritto alla verità, diritto all'esistenza, autodeterminazione, identità, uomini e macchine, post-umano, una rete per i diritti. In questa riflessione l'intelligenza profonda delle cose è continuamente sorretta dalla passione civile e dalla tensione a incidere sulla realtà (e Rodotà ha inciso profondamente in aspetti importanti della realtà di cui scrive, basti pensare al suo ruolo in seno alla Convenzione che ha elaborato la Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea, nonché come presidente dell'Autorità garante per la protezione dei dati personali e del Gruppo di coordinamento dei Garanti per il diritto alla riservatezza dell'Unione Europea). Una riflessione fresca e avvincente, dove anche le pagine ricavate da studi anteriori ricevono nuova luce. Per esempio il capitolo sulla dignità (Homo dignus), che riproduce il testo della lezione tenuta nell'aula magna dell'Università di Macerata nel 2010, in occasione del conferimento della laurea honoris causa, a distanza di oltre quaranta anni dalla prolusione su Ideologie e tecniche della riforma del diritto civile, letta nella stessa aula magna, con lo stesso sguardo rivolto al futuro: "Con quale spirito lo studioso del diritto civile deve oggi muovere verso le frontiere della sua scienza?" ("Rivista di diritto commerciale", 1967). Mentre il discorso di Arendt collega risolutamente la "fine dei diritti umani" al "tramonto dello stato nazionale" e non offre pertanto spiragli, le pagine di Rodotà si aprono continuamente alla speranza: "In questo tempo tanto mutato torna, forte, l'appello ai diritti fondamentali, che percorre il mondo in forme inedite, incontra sempre più nuovi soggetti, costruisce un diverso modo di intendere l'universalismo, fa parlare lo stesso linguaggio a persone lontane (
). Il 'diritto di avere diritti' connota la dimensione stessa dell'umano e della sua dignità, rimane saldo presidio contro ogni forma di totalitarismo". La partita decisiva si gioca nel campo di tensione generato dai due poli evocati da Rodotà nelle prime righe del suo libro: potrà mai esistere un "costituzionalismo globale" in grado di sfidare effettivamente "poteri che appaiono non controllabili"? Oppure la protezione dei diritti fondamentali dovrà continuare a essere collegata essenzialmente all'esercizio dei poteri statali, come proclama l'articolo 1 del Grundgesetz tedesco, che aspira così a rovesciare in termini positivi la durissima lezione della storia? Dovrà la protezione dei diritti fondamentali continuare a essere affidata ai poteri statali almeno nel momento ultimo e decisivo, quando azioni "esecutive" (mi sia concesso quest'unico cedimento al mio interesse specialistico) siano chiamate a concretizzare le "belle parole" delle istanze internazionali (comprese quelle delle corti), al fine di dare effettività a quei diritti? E taciamo sul fatto che, a volte, nemmeno le parole delle corti internazionali sono tanto belle. Non sono belle, per esempio, le parole pronunciate il 3 febbraio 2012 dalla Corte internazionale di giustizia nella vicenda relativa all'immunità giurisdizionale della Repubblica federale tedesca per i crimini nazisti commessi in Grecia e in Italia durante la seconda guerra mondiale. Chi è poco avvezzo a frequentare gli ambienti del diritto internazionale rimane sbalordito: formalmente la pronuncia è stata resa nei confronti dello stato italiano, in relazione ad alcune sentenze della Corte di cassazione che, a partire dal 2004, avevano rifiutato di concedere l'immunità, ma in sostanza è come se la Corte dell'Aja abbia detto ai parenti delle vittime: avete ragione, ma io vi nego il giudice e quindi vi nego protezione giudiziaria. Tra le due posizioni fondamentali che si contendono la ricostruzione di quel campo di tensione evocato da Rodotà, la prima che constata il declino del costituzionalismo moderno legato allo stato nazionale (per tutti, Dieter Grimm, Die Zukunft der Verfassung II, Suhrkamp, 2012), la seconda che sviluppa l'idea di una costituzione per l'intera società europea e poi per la società mondiale (per tutti, Jürgen Habermas, Zur Verfassung Europas, Suhrkamp, 2011), guadagna terreno e attenzione una terza posizione, che cerca di porre "la nuova questione costituzionale (
) non solo in rapporto alla politica e al diritto, ma in rapporto a tutti i settori della società". Certo è che, in confronto con la vecchia questione costituzionale del XVIII e del XIX secolo, si pongono oggi problemi di tipo diverso, ma non meno gravi: "Se allora si trattava di liberare le energie politiche dello Stato nazionale e contemporaneamente di delimitarle dal punto di vista giuridico", si tratta adesso di "arginare gli effetti distruttivi di ben altre energie sociali, particolarmente avvertibili nell'economia, ma anche nella scienza e nella tecnologia, nella medicina e nei nuovi mezzi di comunicazione" (Gunther Teubner, Verfassungsfragmente, Suhrkamp, 2012). Infine una disclosure personale: l'impulso determinante a iscrivermi alla Facoltà di Giurisprudenza l'ho ricevuto nella seconda metà degli anni settanta del secolo scorso, leggendo i commenti che Stefano Rodotà scriveva per le colonne di "la Repubblica". Essi fecero scoprire a me, allora studente di liceo di un paese di provincia, insieme agli "occhiali del giurista", un modo nuovo di guardare al mondo. Remo Caponi
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