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I divoratori - Stefano Sgambati - copertina
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divoratori

Descrizione


Libro candidato da Daria Bignardi al Premio Strega 2021

Non è una serata come le altre nel prestigioso Palazzo Senso, ristorante gourmet dell'Hotel Principe di Savoia di Milano.

I piatti concepiti dallo chef Franco Ceravolo, monumento della gastronomia italiana, atterrano con grazia sui tavoli finemente apparecchiati, trasportando i clienti in un universo sensoriale stroboscopico impossibile da dimenticare. Ma nell'aria serpeggia una strana eccitazione e tutti gli occhi sono puntati verso il centro della sala, lì dove siede "una creatura di perfezione impossibile, ancestrale, l'uomo più bello che si sia mai visto". È Daniel William King, stella assoluta di Hollywood, accompagnato dalla sua bellissima moglie: la coppia di attori più ammirata, invidiata e fotografata del momento, ville da copertina, premi internazionali, figli naturali e figli adottati, ricchezza, successo e due volti assicurati per cifre che basterebbero a pagare un Pollock da Sotheby's: una grandiosa famiglia tradizionale. Condividere con loro il tempo e lo spazio di una cena non è un'opportunità o un colpo di fortuna, ma una responsabilità, un peso capace di cambiare le carte in tavola. A scoprirlo, loro malgrado, saranno Elena e Saverio - che stanno trascorrendo un avventato weekend insieme dopo essersi incontrati al funerale di una comune amica -, Giordano e Frida - uno stimato professore universitario e una sua lettrice di trent'anni più giovane - e un gruppo oscenamente rumoroso, seduto più in fondo, in disparte - la grottesca famiglia del maître, che grazie a una soffiata del figlio non si è fatta sfuggire l'occasione di osservare da vicino Mr e Mrs King. Durante il pasto, mentre in cucina e agli altri tavoli si consumano cattiverie, epifanie e piccoli traumi, al tavolo dei due divi si svolge la scena madre, perché nel cervello dell'attore più bello del mondo, all'oscuro dello sguardo altrui e lontano dalla liturgia dello spettacolo, si annida da tempo un minuscolo seme di follia, "una specie di fungo, una macchia che comincia ad allargarsi" e che devierà senza scampo le traiettorie delle vite di ciascuno dei protagonisti.

Proposto da Daria Bignardi al Premio Strega 2021 con la seguente motivazione:
«Vorrei candidare al Premio Strega il romanzo I divoratori di Stefano Sgambati, uscito per Mondadori. Si tratta di un romanzo molto coraggioso. Tanto disturbante quanto necessario. Fin dalla prima lettura mi ha colpito soprattutto per la sua originalità: è così poco alla moda ed è scritto in modo così personale. È difficile affezionarsi ai personaggi di questa storia, eppure sappiamo che il fastidio che ci provocano ci riguarda profondamente. Il personaggio dell’attore è straordinario: niente di così lontano da noi, eppure condividiamo i suoi pensieri come se li vivessimo in prima persona. Come diavolo avrà fatto Sgambati a immedesimarsi nelle emozioni e nei ragionamenti di un divo di Hollywood? Per me il personaggio di Daniel William King varrebbe da solo il premio. Stimo Stefano Sgambati da quando anni fa lessi Gli eroi imperfetti e da allora penso che sia uno scrittore che meriterebbe più attenzione sia dai lettori che dagli addetti ai lavori. Ora che è uscito I divoratori, il romanzo suo più maturo, come Amica della domenica vorrei che venisse candidato.»

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Dettagli

2020
7 luglio 2020
204 p., Rilegato
9788804687603

Valutazioni e recensioni

3,75/5
Recensioni: 4/5
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Bacco80
Recensioni: 3/5
Non convince fino in fondo

L'autore si piace molto, lessico molto forbito che però alla lunga stufa. I momenti migliori sono quando è più leggero, quando parte con la critica sociale è pesante e ripetitivo con atteggiamento quasi sessantottino. Questo romanzo mi ha ricordato un po' la cena di Koch (capolavoro) condito con la salsa pulp di Tokyo Soup di Ryu Murakami ma senza avere la forza di entrambi.

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Alex
Recensioni: 3/5

Un romanzo insolito. Una scrittura ricercata. Personaggi al limite della credibilità, al limite della vita, al limite della normalità della salute mentale. Tutto in una notte. Tutto in un ristorante. Lusso e disagio. Piacere e apparenza. Un susseguirsi di emozioni e sentimenti controversi in questo libro che disturba e attrae. 3 stelline x il finale mancato e alcuni capitoli nettamenete insufficienti.

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elide apice
Recensioni: 4/5

Un ristorante di gran lusso è la scena che accompagna l’intera narrazione. Al centro della scena i tanti protagonisti: Elena e Saverio, Giordano e Frida, la famiglia di Carlo Di Martino, maitre del luogo e soprattutto William King , attore hollywoodiano con la moglie Sally Person. Una maniera originale per parlare di umanità per scavare nei vizi e nei difetti dei presenti in un continuo annodare fili tra presente e passato. Il libro è infatti ricco di flah back che accompagnano una critica feroce verso il proprio presente. E’ un libro durio che non fa sconti, che disturba e coglie nel segno.

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Voce della critica

È una sera di pioggia a Milano, la sera in cui il lussuoso Palazzo Senso, prestigioso ristorante del celebre chef Franco Ceravolo, ha l’onore di ospitare a cena nientemeno che Daniel William King, accompagnato da sua moglie Sally Parson. Tutti gli occhi sono puntati su di loro, o meglio su di lui, semplicemente «l’uomo più bello che si sia mai visto»: e dunque flash, giornalisti, traffico in tilt, fan impazziti.

Le due celebrità hollywoodiane non sono, tutta via, gli unici protagonisti: attorno a loro, come satelliti di un gigantesco pianeta, seduti ai rispettivi tavoli gravitano gli altri clienti del locale, nell’ordine: Elena e Saverio, a cena insieme dopo essersi incontrati al funerale di una comune amica; Frida e Giordano, lei forse appena maggiorenne, lui professore universitario trent’anni più vecchio; infine una tavolata cui siede la una rumorosa, cafona, grottesca comitiva: è la famiglia del maître Carlo Di Martino, giunta in pompa magna dal sud per non lasciarsi sfuggire l’occasione di cenare vicino alla star.

Detto così, l’incipit de I divoratori (Mondadori, 2020) parrebbe più la prima scena di una pellicola cinematografica: ma in ventunesimo secolo in cui, tra le mille assurde derive, spicca quella di complimentarsi con uno scrittore dicendo che il suo libro “è bellissimo, sembra un film”, Stefano Sgambati (tornato nel territorio della fiction, seppur intrisa di un forte, molecolare, chimico realismo, dopo la parentesi autobiografica de La bambina ovunqueci fornisce un fulgido esempio di quanto le armi della letteratura siano ancora in grado di colpire, ferire il pubblico se ben affilate e maneggiate.

Ed ecco che, grazie proprio a queste armi, il tempo si dilata, lo spazio si confonde: l’autore prende per mano il lettore e lo porta nelle menti dei personaggi, in un continuo alternarsi di presente e passato. Così, sebbene a osservarla da fuori, magari sbirciando attraverso un vetro, la situazione all’interno del ristorante appaia placida e serena, la realtà delle cose si mostra ben diversa: una fragorosa e nera tensione, un male di vivere ogni volta diverso attraversa infatti le vite dei personaggi, scorrendo poi lungo i fili dei rapporti che li legano.

Daniel William King appare sin da subito il più afflitto: è lui la portata principale della grande abbuffata, il «pasto da divorare». O meglio, non proprio lui, ma quello che gli altri vogliono, pretendono che lui sia. Personalità scissa tra l’uomo e l’attore, tra il sentimento e la carne, tra ciò che è stato e ciò che è diventato, King deve fare i conti anche con l’algida moglie Sally, bella, sì, ma «come una montagna che frana su un villaggio».

Menzione d’onore merita Carlo di Martino, il maître di sala, uno dei personaggi più riusciti. La sua storia di emigrante meridionale in cerca di riscatto, dopo la fuga da una situazione familiare e sociale del tutto priva di stimoli e prospettive, deflagra nel momento esatto in cui proprio la sua famiglia di «modelli di Botero» appare nel suo ambiente di lavoro, là dove ha costruito il suo successo.

A fare da contrappunto all’atmosfera nera e sinistra della storia (e del titolo e della copertina), c’è la voce dell’autore: una mola che smeriglia le ferraglie della vita, scintillando nel buio con similitudini e metafore mai scontate, ironia e cinismo dal sapore monicelliano che altro non sono che schietto realismo. Ciò che sorprende in tutto questo – sembrerà banale, ma anche e soprattutto questo è la letteratura – è la capacità di Sgambati di entrare nei suoi personaggi, di “essere” i suoi personaggi, la profondità con la quale esamina l’istante e legge (o meglio, scrive) le loro vite.

I punti di vista, infatti, si alternano capitolo dopo capitolo, smascherando contraddizioni, evidenziando debolezze, rivelando di tanto in tanto le rare qualità, senza che però mai una sola volta la fetida scure del moralismo possa abbattersi su di loro: il narratore non giudica, mai, si limita a raccontare, come il pittore disegna un naso adunco, una cicatrice, una deformità. Tutto questo grazie a un presupposto che aleggia all’interno del romanzo, e più in generale in tutta la visione del mondo di Sgambati, ovvero l’assoluta consapevolezza della meschinità dell’essere umano, del suo lasciarsi vincere quando da istinti e ossessioni, quando dalla miseria delle convenzioni sociali (con una evidente, empatica preferenza per i primi).

I divoratori è dunque un romanzo spiccatamente attuale: quale luogo, del resto, se non un ristorante (Gadda approverebbe), può descrivere al meglio il fortunato secolo in cui siamo? Un secolo di consumatori (e divoratori), di comparse che sognano di essere protagonisti, i quali vanno a comporre un acuto e per certi aspetti devastante affresco dell’Italia contemporanea (oltre che, se vogliamo, del mondo occidentale tutto).

Anche per questo il lettore attento non proverà rabbia o disprezzo di fronte a cotali frammenti di vite, quanto pietà, o meglio ancora vergogna, nello scorrere pagina dopo pagina il racconto di personaggi che, per quanto tutto porterebbe a crederlo, non sono affatto dei mostri, ma dei semplici, banalissimi, esseri umani, proprio come chi legge. Non si cerchi consolazione, dunque, perché alla fine della lettura la domanda sorgerà spontanea, e sarà la stessa, tragicamente retorica, pronunciata dal maître Carlo: «Come possiamo essere tutti a tal punto infelici?»

Recensione di Ignazio Caruso

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Ho letto “I divoratori” ormai qualche settimana fa, ma ho aspettato per scrivere i miei “appunti di viaggio” perché non è mai facile organizzare le idee quando un’opera ci evoca sensazioni e pensieri contrastanti. Questo romanzo mi ha ricordato un allestimento della “Salomè” di Richard Strauss a cui assistetti alcuni anni fa: una trasposizione moderna che ben sottolineava il decadimento dei valori e dei costumi della nostra società, con la scelta di ambientare l’opera in un casinò, di far eseguire la danza dei sette veli da uomini anziani e di presentare Salomè fasciata in un attillato abito di paillettes dorate, vistoso al limite del volgare. Me lo ha riportato alla mente perché anche allora la sensazione fu un misto degli stessi opposti: idea originale, efficace e arguta, ma resa finale non nelle mie corde. I personaggi dei divoratori sono probabilmente più rappresentativi di una deriva della nostra società di quanto inconsciamente io sia disposta ad immaginare e ad ammettere, ma la crudezza del linguaggio e delle immagini con cui sono presentati è stata forse per me eccessiva, sia nel modo, sia nella sostanza. Protagonisti talmente al limite da risultare in alcuni casi quasi caricaturali (fulgido esempio i parenti del maitre della sala in cui si svolge la vicenda).

L’aspetto stilistico della narrazione con la tecnica del flusso di coscienza ha complicato ulteriormente la mia difficoltà a seguire elucubrazioni, “visioni” quasi oniriche, pensieri, emozioni e rievocazione di eventi passati dei vari attori della tragedia umana che si consuma nello spazio delle poche ore di una cena che cambia la vita di molte persone.

Nonostante queste osservazioni ho trovato una serie di spunti di riflessione interessanti: quanto siamo disposti a tollerare quando ci spingiamo oltre i nostri limiti? Quanto siamo condizionati e propensi a farci soggiogare dall’apparenza, dal denaro, dal successo facile? Quanto siamo capaci di passare sopra gli altri per ottenere quello che vogliamo e, se lo otteniamo, siamo davvero pronti a goderne a pieno se abbiamo la sensazione di averlo “rubato” a qualcuno? Che prezzo possiamo arrivare a pagare e quanto possiamo sacrificare della nostra libertà e felicità, pur di raggiungere la vetta? Siamo in fin dei conti tutti potenziali divorati o divoratori?

Nell’insolito romanzo di Stefano Sgambati sono certa che ognuno potrà cercare le risposte a questi interrogativi o lasciarsi trascinare nel torbido dell’animo dei protagonisti e trovarne molti altri.

 

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Conosci l'autore

Stefano Sgambati

1980, Napoli

Stefano Sgambati è nato a Napoli nel 1980, ma ha sempre vissuto a Roma. Si è poi trasferito a Milano, dove si occupa di giornalismo, letteraturae tv. Ha esordito nel 2011 con un libro di racconti, Il Paese bello (Intermezzi Editore). Gli eroi imperfetti (minimum fax) è stato il suo primo romanzo, pubblicato nel 2014, mentre il suo secondo, La bambina ovunque, è stato edito da Mondadori nel 2018 .

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