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Un testo imprescindibile ma tradotto in modo a volte impreciso. Ecco un brano: "Se questi termini rinviano o meno alla chimica del XVIII secolo - termini come flogisto, principio ed elemento - essi non sono eliminabili". Tale traduzione, oltre ad essere incomprensibile, è anche scorretta in quanto non c'è alcun dubbio che quei termini siano del XVIII secolo. Ecco invece una traduzione corretta: "Che questi termini della chimica del XVIII secolo abbiano o meno un riferimento - termini come flogisto, principio ed elemento - essi non sono eliminabili". Purtroppo le molteplici imprecisioni di traduzione spesso inficiano la comprensione (e la serenità) del lettore filosofo.
Recensioni
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recensioni di Israel, G. L'Indice del 2000, n. 11
La morte di Thomas S. Kuhn, nel 1996, non ha dato luogo al corteo di commemorazioni e riflessioni sul suo pensiero che lasciava attendere la sua grande popolarità. Tanto più opportuna appare la pubblicazione di questo volume, a cura di Stefano Gattei, che contiene un'imponente mole di materiali raccolti con l'aiuto dello stesso Kuhn (che ne approvò l'indice prima della morte). I numerosi testi editi e inediti, cui si aggiungono due lettere inedite di Paul Feyerabend, sono inquadrati da un saggio di Gattei sulla filosofia della scienza di Kuhn, da una prefazione di Paul Hoyningen-Huene e da un eccellente apparato bio-bibliografico. Si tratta quindi di un volume essenziale per cogliere l'evoluzione del pensiero di Kuhn dalla formulazione originaria del concetto di paradigma scientifico agli sviluppi successivi e, in particolare: il tentativo di elaborare una nuova teoria del significato; il chiarimento e l'approfondimento del delicato concetto di "incommensurabilità"; e infine la proposizione di una teoria "evoluzionista" dello sviluppo scientifico volta a contrastare le interpretazioni in senso relativistico della teoria delle rivoluzioni scientifiche. Inoltre, questo volume permette di collocare in modo chiaro l'opera di Kuhn rispetto a quella dei tre altri grandi protagonisti della filosofia della scienza del Novecento: Popper, Lakatos e Feyerabend.
La lettura di questo libro solleva un gran numero di temi di grande interesse: tralasciando le questioni per addetti ai lavori, riassumeremo alcune riflessioni che essa ci ha suggerito circa il carattere al contempo paradossale e tormentato della parabola intellettuale di Kuhn.
Il primo aspetto paradossale è relativo alla ricezione dell'idea più famosa di Kuhn: quella di paradigma. Poche idee hanno avuto un successo tanto clamoroso, non soltanto fra gli storici e i filosofi della scienza, ma anche nel mondo della ricerca: moltissimi manuali scientifici, anche puramente tecnici, menzionano questo concetto kuhniano. Eppure i termini in cui esso è stato generalmente acquisito sono talmente vaghi da non configurare una gran novità. L'idea comunemente attribuita a Kuhn è che la scienza non proceda per accumulazione di scoperte, ma secondo programmi di ricerca differenti e talora alternativi. Assai minore popolarità hanno avuto sia la definizione precisa di "paradigma" proposta da Kuhn, sia una serie di altre idee connesse, come quelle di "scienza normale", il principio dell'"incommensurabilità" fra paradigmi e l'affermazione che la scienza è prodotto della "comunità" dei ricercatori anziché dei singoli individui. Sono stati proprio questi aspetti - e in particolare l'impronta sociologistica della sua concezione - ad aver suscitato le reazioni più aspre, soprattutto fra gli storici della scienza. Sono rari gli esempi di analisi storiografiche condotte secondo tutti i canoni della teoria kuhniana dei paradigmi; anche nell'opera storica dello stesso Kuhn, che, nei fatti, ha seguito un approccio "internista", e ha trattato di Copernico o di Planck curiosamente trascurando il contesto sociale delle loro scoperte. Per contro, vi è stato un dilagare di analisi che si richiamavano a Kuhn, ma che, di fatto, si limitavano ad affermare il carattere non cumulativo dell'impresa scientifica e a parlare il linguaggio delle "rivoluzioni" scientifiche e dei "paradigmi" o "programmi di ricerca" (in totale ignoranza delle divergenze fra Kuhn e il meno noto Lakatos).
In conclusione, non sembra esagerato dire che il successo più rilevante di Kuhn è stato quello di far trionfare definitivamente un modo di fare storia della scienza già largamente diffuso nella storiografia più matura (a partire da Alexandre Koyré), che non quello di riuscire a far accettare le teorie esposte in La struttura della rivoluzioni scientifiche, di cui il capitolo più letto è stato certamente l'introduzione.
Un altro destino paradossale e amaro è stato riservato a uno degli aspetti più caratteristici dell'opera di Kuhn, l'approccio sociologico alla storia della scienza. Esso suscitò un interesse naturale in un periodo in cui era di moda la "critica sociale della scienza". Ma suscitò anche accese polemiche. Come dimenticare le reazioni spropositate che seguirono alla diffusione dell'opera di Kuhn in Italia, quando essa venne accusata con veemenza di essere alleata di maghi, fattucchiere e cartomanti nell'opera maligna di distruzione del razionalismo?
Come ha osservato Yehuda Elkana, "Koyré genuit Kuhn; Kuhn genuit la sociologia storica della conoscenza scientifica". Difatti Koyré ha contribuito alla valutazione degli aspetti socio-culturali chiamando in causa, nelle sue analisi, "tutti i molteplici strati del contesto generale in termini di immagini del sapere socialmente determinate"; sebbene sia sempre rimasto fedele all'approccio in termini di storia delle idee. Kuhn ha tentato con la sua opera di colmare la "distanza abissale" fra storia della scienza e storia sociale. Eppure anch'egli non soltanto non è andato molto oltre la storia delle idee, nella sua produzione storiografica, ma ha preso le distanze in modo via via più marcato dall'approccio sociologico.
In un'intervista rilasciata a "Le Monde" nel 1995, Kuhn si esprimeva in termini sprezzanti nei confronti della sociologia della scienza: "Il prestigio dell'epistemologia è stato certamente ridotto dalla crescita, in questi ultimi anni, dell'interesse per la storia e la sociologia delle scienze; ma non ne ricavo la conclusione che la filosofia della scienza sia conclusa, perché, se la sociologia della scienza ha una sua utilità - almeno per aiutarci a pensare la collocazione della scienza nella società -, essa ha nulla o poco da dire circa ciò che costituisce la conoscenza scientifica in sé. Ora, è più che mai necessario interrogarsi sulla natura della conoscenza e della razionalità o riflettere sulla nozione di significato...". Questa rude presa di distanza era determinata dagli sviluppi più recenti della sociologia della scienza, e in particolare dal cosiddetto "strong program", definito dallo stesso Kuhn come "un esempio di decostruzione diventato aberrazione". Difatti questi sviluppi implicavano un esito che Kuhn considerava inaccettabile: il relativismo.
Il tentativo di tener fermi alcuni capisaldi della sua visione senza dover assaggiare il frutto avvelenato del relativismo è alla radice della fase più complessa e irrisolta della vicenda intellettuale di Kuhn, e che è sfociata nella teoria evoluzionista dello sviluppo della conoscenza, che prende in esame il processo di cambiamento della conoscenza piuttosto che il sapere come dato. La storia ora è vista come una storia dei cambiamenti di credenze (verificatisi nel tempo per piccoli incrementi, anche se il cambiamento finale può essere rilevante) e del contesto in cui si sono verificati. I temi della razionalità e dell'oggettività riguardano il processo stesso del cambiamento. Alla razionalità della credenza viene quindi sostituita la razionalità del cambiamento incrementale della credenza, visto come un processo darwiniano.
Si tratta di una soluzione assai fragile, e non stupisce che la stesura dell'ultimo volume di Kuhn (mai terminato e di cui verranno forse pubblicate le parti completate) abbia avuto una vita così difficile.
Tuttavia, la vicenda filosofica di Kuhn, assieme a questi aspetti tormentati e amletici, offre l'immagine di un'estrema onestà intellettuale nel perseguire l'obiettivo difficile di asserire che l'impresa scientifica è oggettiva e al contempo socialmente determinata. Non altrettanto rigoroso appare l'atteggiamento dei tanti che furono feroci detrattori di Kuhn negli anni settanta, in nome del razionalismo e dell'oggettività, e ora si allineano senza fiatare su pratiche storiografiche ispirate da un sociologismo estremo - i cui prodotti sono spesso una miscela di stravaganza e di banalità -, forse intimiditi dal predominio che queste pratiche hanno assunto nella storia e nella filosofia della scienza statunitensi.
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