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Descrizione


L'esperienza della guerra vista e vissuta al femminile. La quotidianità invasa dalla guerra, il lavoro moltiplicato, lo sforzo di far continuare la vita, la lotta armata, il rapporto con il maschile: dagli stupri subiti dalle truppe d'occupazione alla protezione offerta a sbandati e disertori, dall'attesa del ritorno dei soldati alla risolcializzazione dei reduci dai tanti fronti e dalle tante prigionie.
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Dettagli

3
2002
10 giugno 1991
218 p.
9788842038177

Voce della critica

ELSHTAIN, JEAN BETHKE, Donne e guerra, Il Mulino, 1991
BRAVO, ANNA (A CURA DI), Donne e uomini nelle guerre mondiali., Laterza, 1991
recensione di Monteleone, R., L'Indice 1992, n. 1

Si racconta che san Giovanni Crisostomo fosso solito sviluppare il seguente ragionamento sull'essere e sullo stare della donna in questo mondo: "È nata da una costola di traverso e dunque tutto il suo spirito si è trovalo naturalmente inclinato al male e alla violenza .
Presso i Greci era trasparente il senso metaforico nel mito di Afrodite. Era moglie di Efesto, grintoso forgiatore di arnesi mortali, e insieme amante lasciva di Ares, guerriero fracassone e petulante: significava che alla quintessenza della femminilità non era aliena la dimestichezza con l'uomo d'arme, n‚ con certe sue rissose malusanze. Ma la questione resta molto controversa, perché c'è anche un'altra tradizione culturale molto tenace che ha abituato mentalmente a identificare la donna con la pace e la non-violenza, riservando all'uomo l'esclusiva degli istinti bellicosi e collerici. Così, la guerra diventa appannaggio del maschio-guerriero. Dai poemi omerici all'epica cavalleresca, da Machiavelli e Rousseau e Hegel fino al vigoroso filone della narrativa di guerra: è tutta una fiera del maschilismo trionfante. La donna resta fuori dal giro: è il contromurale pacifista o, al più, è sposa e madre spartana, austeramente rassegnata al sacrificio del suo uomo o del figlio.
Però, l'esperienza di due guerre mondiali, "guerre totali" universalmente coinvolgenti e distruttive, ha di nuovo messo in discussione questa schematica tipologia differenziale dei generi. Helga Schubert, scrittrice e psicoanalista tedesca di notevole statura, ha raccolto di recente nel libro "Donne Giuda" (edizioni e/o) una serie di testimonianze e storie di vita di delatrici nella Germania nazista, imbalordite da odi e amori, da rivalità, vendette o fanatismo politico. Introducendo questo sconcertante materiale, la Schubert si è espressa con molta franchezza sull'intorciglio dell'anima femminile: "Mi infastidisce - ha scritto - l'idealizzazione delle donne: non siamo poi così sensibili, così delicate, così disponibili, così materne, così comprensive, così creative, così autentiche. Siamo anche cattive e pericolose, a modo nostro". Natalie Davis, in un saggio pubblicato su una rivista americana col titolo "Men, Women and Violence", calca ancor più la mano e rammenta che l'ancestrale paura maschile delle donne proviene dal convincimento che siano, "sesso lussurioso, disordinato e instabile", capaci di "scatenare una distruzione insensata e seminare violenza nel mondo che le circonda
Il libro della Elshtain e quello curato da Anna Bravo (che raccoglie gli atti di un convegno svoltosi a Torino un anno fa) aiutano a fare un po' più di chiarezza in questa massa di giudizi e preconcetti, partendo dal presupposto che nulla meglio dell'impatto con le grandi guerre di sterminio del nostro tempo possa portare allo scoperto le reattività più genuine della donna alle sfide del furore e della morte collettiva.
Jean Elshtain, politologa americana molto impegnata sul terreno del femminismo, si ferma a riflettere sul controsenso del "fascino irresistibile della guerra" (su maschi e femmine, non importa), nonostante il suo smisurato potere devastatore, nella carne e nello spirito. Eppure, non sono mancati in tutti questi decenni i messaggi di un'umanità dissanguata e moralmente impoverita, dai fronti di combattimento più spietati. Questa immagine della "guerra sporca" è la più ricorrente, insistita, nelle memorie dei combattenti, insieme alle profonde melanconie che accompagnano la regressione a uno stato di irresponsabilità infantile. "Si ha tempo, si ha denaro, nessuna preoccupazione", annotava Paul Klee nel suo diario in trincea. Ma di lì, assicurava Musil, si tornava portandosi dietro "soltanto un'inquietudine piena di stupore".
Eppure, malgrado tutto, i più recenti sondaggi confermano la recidività degli entusiasmi marziali. Un'inchiesta condotta negli Usa qualche anno fa ha appurato che oltre il 55 per cento dei giovani di 18-20 anni è favorevole a invadere l'Europa, qualora fosse necessario. Il 71 per cento delle donne americane approva il servizio militare femminile e il 10 per cento di loro si trova già intruppata nelle file dell'esercito statunitense. Negli ultimi tempi il fenomeno si è generalizzato e anche l'89 per cento delle italiane ha rivendicato il diritto-dovere di difendere la patria, e non pelando patate o rabberciando ferite, ma in posizioni di comando e in reparti combattenti. Nei paesi del Terzo Mondo questa rivendicazione è da tempo operante. La Elshtain spiega che è la stessa evoluzione tecnologica della macchina militare a rendere realistica la smania combattentista delle donne. Infatti, la tecnologia militare ha i medesimi effetti di quella industriale: eliminando la fatica fisica (di lavorare/di uccidere) consente di utilizzare in entrambi i campi una massa di forza-lavoro femminile impensabile nei tempi andati.
Le atrocità delle guerre passate sembrano non esercitare nessuna inibizione, neppure in prospettiva atomica. Il fatto è che la forza annientatrice dei moderni armamenti va al di là di ogni possibile immaginazione. Ha ragione Jean Baudrillard quando avverte che "nessuna raffigurazione neanche "The Day After", ha potuto rendere credibile quello scenario o oscenità nucleare".
Stiamo dunque avanzando nell'epoca della "donna-guerriera"? Elshtain dice che il processo è iniziato con la prima guerra mondiale, quando la donna diventò "agente di reclutamento" nel nome edificante della "guerra buona". Allora parve chiaro che "le donne sono sensibili quanto gli uomini alla retorica bellicistica e a costruzioni della 'guerra santa'". Il pacifismo si ridusse a bandiera di una minoranza, dove le donne erano in minoranza rispetto all'altro sesso. La categoria delle donne - "anime belle", distinta dalla Elshtain, non è sparita: si è mobilitata come parte "non combattente", ma nello stesso spirito di sacrificio e dedizione incitano gli uomini a fare il loro dovere.
L'irruzione attiva delle donne nello sforzo bellico dei loro paesi porta però la Elshtain a conclusioni opposte a quelle tratte da Galli della Loggia nella sua relazione al convegno di Torino. La medesima constatazione lo porta infatti a attribuire alla seconda guerra mondiale un carattere "femminile" che la distingue dalla precedente, rudemente maschilista secondo la classica interpretazione "männerbundista" di George Mosse. A suo avviso, la guerra avrebbe agito come una "scuola modernizzatrice", da cui i ruoli dei generi sono usciti potenzialmente rovesciabili in un sistema di democrazia tanto aperta al "femminile", quanto lo fu al "maschile" il fascismo.
Ci sono molte cose che non convincono in queste tesi dal sapore troppo assertivo. Per cominciare, gli effetti della guerra non risultano così univocamente "modernizzatori" come pare a Galli della Loggia. Ci sono aspetti di conservazione, opportunamente rilevati da Anna Bravo, anche nell'ancoraggio solidale della donna alla famiglia, al gruppo, che "mettono notevolmente in forse l'idea della guerra come l'età dell'oro dell'emancipazione "
Quanto alla guerra "al femminile", credo che la Elshtain abbia migliori frecce al suo arco nel dimostrare che piuttosto di "femminilizzazione della guerra" è meglio parlare di "maschilizzazione della donna in guerra". La Elshtain e la Bravo sostengono insieme che la guerra impiega le donne in mansioni maschili. Quelle che Elshtain chiama le "Poche Feroci", assumono platealmente travestimenti maschili, in un filo genealogico che da Calamity Jane arriva fino alla Rosina Cesaretti, l'efferata collaborazionista nazista ricordata da Galli della Loggia che sembra essere la versione moderna delle brigantesse ottocentesche.
Ad onta di tutto, il maschilismo resta sempre in agguato, pronto a ristabilire le distanze, a imporre i suoi pregiudizi e le sue diffidenze. La Resistenza, ricorda Chiara Saraceno nell'introduzione al libro della Elshtain, resta un tipico modello di guerra "al maschile", dove le donne vanno bene come staffette, nei servizi; ma quelle armate, che si battono spalla a spalla coi giovani maschi, creano disagio, imbarazzano, ridestano antiche superstizioni e pratiche scaramantiche.
La realtà è dunque assai complessa, sfaccettata, contraddittoria, ma dà molti segnali della crisi del pacifismo femminile. Per questo la Elshtain chiude il suo libro con un pensiero allarmato. Nell'ultimo decennio negli Usa è esploso un "nuovo patriottismo", socialmente più onnivoro che mai: un patriottismo aggressivo, arrogante, molto temibile in una potenza che detiene il primato assoluto degli armamenti e che sembra decisa a investirli nella instaurazione di un nuovo ordine mondiale. Insomma, quel che succede all'est non distragga da quel che può succedere all'ovest. Qui sta lievitando una "società unificata", compattata nei generi, nei ceti, nelle fasce generazionali e, soprattutto, -donne comprese - già "mobilitata e pronta alla battaglia".

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