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Anno edizione: 2017
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In chiusura del suo agile volumetto, giunto dopo approfondite indagini sul pop, il design e il kitsch, Andrea Mecacci ammette: «noi che veniamo dopo Warhol non facciamo altro che avverare le sue fastidiose profezie». Proprio per ovviare al disincanto di questa constatazione, Mecacci tenta di immaginare l’oltre-Warhol, passando in rassegna processi e concetti dell’odierno approccio estetico ed estesiologico a un’era che non possiamo non definire warholiana.
Per quanto sorprendente possa apparire, secondo Mecacci il nodo dell’arte di Warhol è lo stesso del classicismo, affonda le sue radici in una lettura penetrante del mimetismo estremo di Winckelmann, e nel dramma inverso e collegato di Jackson Pollock, martire di un’interpretazione dionisiaca del fare artistico, allorché scoppia in singhiozzi di fronte a un suo quadro, ponendo l’antica questione ontologica: «è pittura questa?».
Di fronte allo sciame di domande sull’essenza dell’opera d’arte che hanno affollato anche la pratica dell’arte nel Novecento, la risposta warholiana si è riversata nella costituzione dello standard del pop: rimodulare la ricerca del bello all’altezza di ciò che un tempo si definiva «tardo capitalismo», ovvero «rappresentare meccanicamente l’eidosdella bellezza come questa si delinea nei linguaggi della comunicazione novecentesca».
In quest’indagine Andy Warhol, lo slovacco albino con la maglietta a righe, ha rappresentato un’inversione totale sulla strada seguita al romanticismo: un nuovo debordante classicismo viene posto come sfondo di un’interrogazione sull’umano e le sue attività poietiche. Warhol vira integralmente sull’oggettificazione del bello. Tutto – ispirazione, gesto, personalità dell’artista – viene piegato alla logica dell’artificio. «L’artificio fu la soluzione» all’insufficienza del bello reale. Se l’idea del bello se ne sta in disparte, torso irraggiungibile e simulacro di consunzione cultuale per l’occhio ammirato, l’artificio si presta alla comunicazione, all’esposizione, alle dinamiche del capitale. Ed è proprio l’avvincente accostamento operato da Mecacci nell’affiancare Winckelmann e Baudelaire per dirci l’oltre Novecento, a produrre Warhol, la sua indagine dell’artificio, e i suoi postumi – la nostra epoca di arte en travesti, di cosmesi inesausta, di mimesi che sconfessa il reale.
Qual è l’esito di questo processo che ammette il ruolo della contingenza – storica, tecnica, artificiale – nella definizione del bello? Una giustizia distributiva, «in una pura logica di democrazia pop», dove a ciascuno, in differenti momenti della vita, in diversi aspetti del corpo, possono spettare altrettanti momenti di bellezza. Ma vi è spazio per una faglia critica in questa apparente, «democratica» celebrazione dell’esistente, nel quietismo del bello distribuito a pioggia? Così facendo, a dispetto di ogni differenza, la strategia warholiana rischia infatti di saldarsi con quel processo kitsch, post-romantico, che ha infinitizzato il bello nei gingilli che arredano la coscienza borghese. Il retaggio romantico è duplice – «l’infinito e il suo antidoto, il sublime e la sublimazione» – e si ripartisce nelle partiture di copie e decorazioni che rimandano agli originali, e nel farlo rimandano all’infinito. È la denuncia delle «scimmie» di Bruxelles operata da Baudelaire, che Mecacci individua come atto originario del post-modernismo: una scena originaria di quel processo di «estetizzazione diffusa» in cui siamo immancabilmente presi. Un conservatorismo capace di intrattenere, «rivestito di appeal» – come nel Learning from Las Vegas di Venturi e Scott-Brown –, si palesa nella sua capacità di «erodere il soggetto», di farne la cavia di un processo massificato di sublimazione, come l’altra faccia di quella lettura che circoscrive la cosa d’arte alla sua evidenza di merce (la linea Baudelaire-Warhol, via Benjamin e Baudrillard), e come tale la massifica – la «democratizza».
Dal kitsch al post-moderno il passo è breve, in questo libro dalle intuizioni brevi e feroci (per la sistematicità non resta che attendere), per approdare a una riflessione sul «falso» che concerne appieno il nostro quotidiano di citazioni casuali, di repertori scovati senza criterio, di montaggi random di beni culturali. Qui l’estetico sembra configurarsi come marchio di un «incessante processo di ibridazione». E non basta quell’ipotesi (vedi Goodman), che tra la visione della scatola del supermercato e quella del Brillo Box di Warhol vuole inserire un’educazione critica dello sguardo, capace di attivare nel fruitore la percezione riflessa della differenza. Non basta, perché nell’estetizzazione contemporanea siamo più vicini a un’iperrealtà dove si fa scientemente «esperienza del falso», secondo le letture di Eco e Baudrillard.
È la logica seduttiva e fascinante a sostituirsi all’istanza produttiva: «la simulazione è la dimensione che oltrepassa e nega l’ideologia della rappresentazione, vale a dire l’ideologia di un rapporto ancora gerarchico tra realtà e immagine che ha come fine l’attestazione del vero». Fascinazione, quindi, come vincolo esercitato dall’oggetto (che sia opera o persona poco importa). Al di là di una logica razionale si evidenzia una dinamica carismatica: oggetti pieni di grazia si costituiscono come segni, simulacri efficaci. È il falso al lavoro che, laddove «il valore espositivo è il nuovo reale», non manca di esercitare effetti di potere in quello scenario odierno dell’estetica diffusa che Mecacci, con un parallelo significativo, paragona alla globalizzazione per il ruolo giocato nelle scienze politiche ed economiche. L’estetico come simulacro consegue un esplicito ruolo operativo: «l’arte proliferando ovunque si scopre impegnata nella propria scomparsa».
Ed ecco, in un richiamo a Marx attraverso Berman e Michaud, l’estetizzazione ubiqua nell’era del consumo, dell’annullamento del desiderio collettivo in una miniatura di esperienze di godimento atomizzate. Dove il rischio – palese già alle denunce benjaminiane in coda all’Opera d’arte – è che l’estetizzazione preluda all’anestetizzazione. E l’altro rischio – condensato nell’enigmatico appunto di Warhol che dà il titolo all’epilogo del libro, Illiminate Art, elimina/illumina l’arte – è che l’autonomizzarsi del momento estetico, allorché si fa principio di un’esperienza del seriale, sia un corollario delle tante «morti dell’arte» annunciate da due secoli a questa parte. Celebrata l’ennesima funzione in morte dell’arte, è proprio come tale – defunta – che essa si affaccia all’esperienza di massa, proliferando come «atmosfera estetica». E come tale non manca di riproporre il dilemma platonico del suo rapporto con la città e con la politica. Da sempre, nella polis, ogni arte è illuminata ed eliminata.
Massimo Palma
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