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Anno edizione: 2019
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Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Coltri ci guida a centoventi, settanta, trenta chilometri da Daesh, a cinquanta metri dalle autobombe, dentro i campi per i rifugiati e negli uffici delle Ong che cerottano come possono le emorragie (di beni primari, di speranza, di istruzione, di diritti umani) nelle zone di guerra. A parole sue, pratiche, tangibili: la metafora più ardita di tutto il volume è quella degli scoramenti, arpie d'impotenza che, racconta l'autore nella postfazione, sono "la sfiducia che ritengo colpisca periodicamentechiunque faccia l'operatore umanitario". È un mondo fragile ma monumentale, e da una guesthouse a uno scantinato riconvertito in rifugio antiaereo di fortuna, pare di portare per mano ogni immagine, ogni passaggio. Vabbè, mi sono commossa e mi è piaciuto tanto. Coltri è una brava persona e questo traspare con candore dal suo modo di ritrarre gli altri, che siano colleghi o vecchi ambulanti intravisti mezza volta; non si mette in cattedra, non si perdona niente e non si risparmia. A pagina 62 gli vuoi un bene della madonna e a pagina 171 staresti ad ascoltarlo ancora per il doppio del tempo.
Lettura straordinaria. Ho incontrato personalmente l'autore che mi ha onorato con autografo. Lettura che ti coinvolge, ti fa sentire un verme perché non fai abbastanza per gli altri.
Recensioni
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«Gran parte di un carattere di un uomo può essere letto nella sua casa».
Ho preso in prestito questa citazione di Ruskin per introdurre la raccolta di racconti Dov’è casa mia (181 pagine, 16 euro) di Davide Coltri, pubblicata da Minimum Fax. Coltri è un operatore umanitario impegnato in progetti di istruzione in contesti di emergenza in Nepal, Iraq, Sierra Leone, Sudan, Tanzania, Turchia e Siria e di case ne ha viste tante.
Sono le case che vede riflesse negli occhi di chi incontra nel suo cammino, quel senso di appartenenza a un luogo a cui sentiamo di dover offrire il nostro tributo, fedeltà e rispetto, la fiducia nel credere che ciò che chiamiamo casa sopravviva al fuoco incrociato del delirio di onnipotenza delle grandi potenze scese in guerra.
Sono tutte storie vere quelle presenti nei dodici racconti di questo volume, vissute dall’autore in prima persona o ricostruite attraverso le testimonianze di altri operatori, sempre dal punto di vista di un narratore che parla in prima persona. L’adesione ai fatti non è dettata dalla pretesa di fornire un documento storico oggettivo, ma costituisce lo spunto iniziale per la personale rielaborazione del vissuto soggettivo dell’autore il quale finisce dunque per essere non solamente pura immaginazione, ma l’esperienza intima del proprio esserci in un contesto storico reale che mai come oggi ha bisogno di essere portato all’attenzione del pubblico.
Non è forse la finzione narrativa a rendere più vera la realtà? E non è forse più vera perché passa attraverso di noi, che la guardiamo con gli occhi della nostra soggettività? È l’autore stesso a svelare quello che chiama il “processo di rielaborazione estetica” dei fatti nelle note finali.
«…sono convinto della centralità delle storie: credo che quando le narrazioni (orali, scritte, visive, ecc.) riescono a spingersi oltre i confini stabiliti da identità ereditate, imposte o autoimposte, abbiano il potere di avvicinare mondi diversi e mostrare il sostrato comune a tutti noi, quello che d’altra parte dà forza e ragione d’essere al lavoro umanitario. Mi auguro che questi racconti siano riusciti, seppure in minima parte, a ridurre quella distanza».
Questa distanza c’è e si sente: le ambientazioni di questi racconti non ci sono di certo familiari. Siamo in Iraq, in Siria, ai confini con la Turchia: le proteste a Damasco degenerano in guerra civile, l’Isis è sempre più vicino e gli attentati diventano sempre più frequenti. Ci sono innanzitutto le strade dissestate e invase dalle macerie di edifici scomparsi, strade che sono l’ombra della vita che vi scorreva a fiumi. Ci sono i quartieri svuotati dei propri abitanti, ostaggi del silenzio assordante di un allarme antibombe.
Dalle strade assopite si accede velocemente ai rifugi nascosti e alle cantine sovraffollate, dalle quali gli abitanti riemergono anche dopo molti giorni di convivenza forzata in spazi angusti e maleodoranti. Spazi stretti si alternano alle distese infinite dei campi profughi, descritti con la pragmaticità di un operatore che deve imparare a suddividere baracche indistinte in settori e a tradurre le poche risorse disponibili in aiuto concreto per chi ci vive. I luoghi descritti sono anche i paesaggi africani e i villaggi delle popolazioni rurali in Tanzania e Sudan ai quali il narratore ritorna sull’onda di un ricordo dolce-amaro dove la la fatica del lavoro e l’estrema povertà si stagliano da un panorama mozzafiato.
«…il viaggio di ritorno è sempre un misto di sudore, mal di testa, arsura e noia per la strada conosciuta a menadito; ma è anche il sole gigante come in un disegno di un bambino alla nostra sinistra, il fracasso delle cicale, le schiene dei coltivatori di canna da zucchero ai bordi della strada, donne e ragazzine che portano pesi indicibili sulla testa, motociclette cariche di famiglie e vettovaglie, la vena rossastra e senza fine della strada attraverso il corpo verdeggiante dell’orizzonte, le montagne in lontananza».
L’ambiente di molti racconti rispecchia lo stato d’animo dei personaggi e si traduce spesso in una tensione tra opposti come luce-ombra, interni-esterni, isolamento-promiscuità, una dialettica che ripropone fedelmente quel rapido susseguirsi di paura e sollievo, noia e rassegnazione, impotenza e coraggio dei momenti di guerra.
Due racconti mi hanno colpito in modo particolare: Dov’è casa mia, che dà il titolo alla raccolta, e Scoramenti. Entrambi segnano momenti importanti nella vita dell’autore. Il primo ci parla della sua prima esperienza sul campo, ed è posto, non a caso, come ultimo testo della raccolta quasi a voler suggerire un ritorno ciclico ora che Coltri sta affrontando un momento di pausa dal lavoro sul campo. Il secondo è una presa di coscienza degli scoramenti che sono la causa di questa «pausa forzata dal lavoro» e insieme la consapevolezza dei limiti che impediscono l’agire solitario nel mare di sofferenza che lo circonda.
«Qui la gente muore e tu sistemi scatoloni di cartoleria».
In entrambi è forte la presenza della casa: casa è l’Iraq che Kani non si rassegna ad abbandonare se non quando il rischio per l’incolumità della sua famiglia diventa insostenibile perché «l’Isis si è fatto troppo vicino e bisogna fuggire «su un gommone troppo pieno»; casa è ciò che ci siamo lasciati alle spalle (Verona, l’Italia) e che non ci rappresenta più e, forse, casa è fare pace con se stessi e i propri limiti, con il limite del proprio sguardo.
I racconti di Coltri emozionano e non riescono a lasciarci indifferenti, dinanzi a tanta umanità, quell’umanità grazie alla quale ci riconosciamo fratelli e che persone come Coltri hanno il coraggio di testimoniare in luoghi dove la guerra toglie il senso a ogni cosa. Le vite di Khalat, una ragazza siriana che desidera una vita da studente universitaria a Damasco, del rifugiato Théogène, dell’operatrice Anneke in Darfur, di Kani, di Huzayfa e degli altri protagonisti di questa raccolta rimarranno impresse nella memoria del lettore perché in esse riconoscerà anche la sua umanità.
Recensione di Silvia Gasparoni
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