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Dove va la cultura europea? Relazione sulle cose di Ginevra
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Dove va la cultura europea? Relazione sulle cose di Ginevra - Gianfranco Contini - copertina
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Dove va la cultura europea? Relazione sulle cose di Ginevra

Descrizione


"È ingenuità riunire un congresso sullo "spirito europeo" per poi consigliargli di espungere la politica dalla propria competenza. A meno che la cultura non pretenda di giungere al suo estremo della presa di coscienza per isolarsi e trovare nella propria giustificazione un alibi e un pretesto all'inazione. In senso peggiorativo, potrebbe ben darsi che questa fosse una definizione dell'Europa; e non è da escludere che essa sia questo scadimento (che è morale) d'una cultura a metodo scolastico. Se la reazione consiste nel frenare arbitrariamente lo sviluppo d'un processo dialettico, nel rifiutarsi alle deduzioni necessarie, sarà lecito senza peccato di demagogico vocabolario chiamare reazionaria una cultura che, giunta alla sua presa di coscienza, si rifiuti di convertirsi in azione". Queste parole si leggono nel reportage che il giovane Contini, "inviato" a Ginevra, scrive nel 1946 per la "Fiera letteraria". In esso sfilano e si confrontano alcuni protagonisti della cultura europea. L'occasione è la prima di quelle Rencontres internationales de Genève che da allora, con cadenza biennale, hanno discusso temi cruciali della nostra epoca. Con un saggio di Daniele Giglioli.
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Dettagli

2012
5 ottobre 2011
63 p., Brossura
9788874624171

Voce della critica

  Montale era stato tra i più solleciti nel congratularsi con Gianfranco Contini, all'uscita del numero della "Fiera letteraria" che si apriva con il "bellissimo, magistrale rendiconto del raduno suizo" (la prima delle Rencontres internationales di Ginevra, sul tema L'esprit européen). Gli aveva scritto il 1° novembre 1946, e il settimanale portava la data del 31 ottobre: "Quanta soddisfazione mi ha dato sentir toccare come tu solo puoi fare i punti che più c'importano, nel tuo reportage di Ginevra. Raramente ti eri scoperto così e avevi parlato anche per altri con tanta autorità" (Eusebio e Trabucco. Carteggio di Eugenio Montale e Gianfranco Contini, a cura di Dante Isella, Adelphi, 1997). Il primo a rivendicare la natura (anche) letteraria di Dove va la cultura europea? è stato però alcuni decenni dopo padre Giovanni Pozzi, che nel Dittico per Contini parla del rendiconto ginevrino come di un "racconto creativo", "un moderno conte philosophique" (in Alternatim, Adelphi, 1996). Saggio? Cronaca? Racconto filosofico? Di certo le singolarissime pagine del critico "nelle spoglie del cronista" (è lui a definirsi così) riservano molte sorprese. La prima è il piglio, l'autorevolezza, la totale mancanza non solo di timore reverenziale ma anche di generico ossequio nei confronti di personaggi che hanno magari più del doppio dei suoi anni, e sono considerati mostri sacri della cultura europea. ("Cosa significa avere vent'anni / se non amare pochi maestri e odiarne molti?", ha scritto Giovanni Agosti). Il giovane Contini (in realtà trentaquattrenne, ma già un'autorità) non si risparmia impuntature, esibite insofferenze, bocciature sonore. Denis de Rougemont è liquidato in due righe come "atletico teoreta, si mormora con applicazioni pratiche, dell'amore occidentale". Il quasi centenario Julien Benda, una specie di cariatide, verboso, "affidato a tremula canna". Georges Bernanos, un "energumeno", un "clown perfetto", un ipocrita che "simula lo smercio di verità impopolari" e in realtà cerca l'applauso, spacciando "il suo ircocervo di sciocchezze, di logica e di finezza victorhughiane". Stephen Spender, un eccentrico allampanato, zazzera rossa e camicia turchina. Protagonista di un siparietto malignamente intitolato Ritrattino di Spender (non credo, a differenza dell'ottimo curatore, Luca Baranelli, che i titoli dei paragrafi siano redazionali), il poeta delle Spiritual Explorations si aggira per le sale del convegno con al collo "una camera perlomeno da colonnello", per immortalare "le scene più divertenti". A Spender, il cronista non perdona l'assoluta "mancanza di razionalizzazione", la mediocre fonazione del francese, anche se impresentabile ai suoi occhi appare soprattutto la chioma ("le ciocche fulve che gli sfuggono d'ogni parte"), ed è singolare la consonanza fra il critico che già nel 1942 aveva scoperto la poesia di Pasolini e il futuro autore degli Scritti corsari (mai vista tanta acuzie nell'osservare e interpretare il linguaggio dei capelli: l'affettata frangetta ascetica di Benda, l'erta canizie romantica di Flora, il ciuffo centro-europeo di Lukács, l'astrakan che Jean Wahl si porta sulla testa…). Dal punto di vista narrativo, lo scritto ha il suo fuoco nel Duello oratorio tra Jaspers e Lukács:lo scontro in figura di scherma tra l'altissimo filosofo esistenzialista, "esile, pallido e canuto, figurino impeccabile in nero o in grigio", e il "piccolo Lukács", con "vestitino color senape", occhialoni e volto di asceta magro e duro. Se il primo ha dalla sua "il capitale d'un volto amabile a priori all'uditorio", il secondo offre di sé "crudelmente sempre e soltanto la lama". Un po' a sorpresa, la palma del confronto va al filosofo marxista, e non solo per il rigore della sua argomentazione ("uno spettacolo dell'intelligenza pura"). Nel bailamme intellettual-mondano di Ginevra non sfugge al cronista come quel piccolo asceta protervo, diverso da lui per gusti, formazione, ideali di estetica e di poetica, sia l'unico ad affrontare di petto con fermezza e convinzione il nodo che, se rimosso, rende ogni discorso sulle sorti dello spirito europeo vana chiacchiera: il nesso, cioè, tra la cultura e la politica, che deve essere inscindibile, e che in Contini prende la forma di pedagogia. Lo spiega benissimo Daniele Giglioli nel bel saggio in coda al volume. Se il punto, come chiedeva Lukács, è "che fare?", "si sa dai fatti quale fu la risposta di Contini, che abbandonò la politique politicienne e dedicò tutta la sua vita alla ricerca e all'insegnamento". Non si deve pensare però a una rinuncia o un ripiego. Quella della pedagogia e della didattica − "pedagogia in quanto riflessione su una prassi e didattica in quanto traduzione all'atto di quella riflessione", chiosava l'allievo padre Pozzi − è una scelta consapevole, dettata da passione, tensione civile, anche indignazione nei confronti di ogni faciloneria.   Di qui l'oltranza dello stile. Non è la prima volta che Contini si cimenta con il genere della corrispondenza giornalistica. Già nel '36 si era divertito a raccontare da cronista, trovando uno stile tra Faldella e il Gadda prima maniera, un convegno di glottologi in Provenza, con aneddoti, punzecchiature e dettagli sulla scarrozzata degli accademici in un villaggio remoto per l'inaugurazione di un monumento a qualche gloria locale, "in mezzo alla vegetazione più cézanniana, fra strida di monelli, fanfare, occhi neri, membri dell'Istituto e félibri". Nel caso dell'incontro di Ginevra, però, c'è di più. Non solo la verve della scrittura, il gioco di farsi narratore (per uno che aveva il vezzo di dirsi privo dell'"arte di esporre il più esiguo aneddoto"), o l'ironia fin troppo facile nei confronti delle aggregazioni accademiche. La posta qui è più alta, perché a ridosso della catastrofe è urgente e drammatico ribadire che non possono esserci letteratura o arte o cultura o "spirito europeo" separati dalla prassi umana. Per lui, "un articolo di fede" (Giglioli). Sono l'urgenza e la drammaticità dell'oggetto del contendere, insieme al fastidio per la colpevole vaghezza, a trasformare la corrispondenza da Ginevra in un pamphletferoce contro le armi spuntate della cultura europea. Concluso l'elogio della pedagogia e lamentata l'occasione persa ("Se un congresso d'intellettuali si degnasse di occuparsi d'insegnamento, e magari di riforma"…), il critico sceglie per congedarsi dal lettore un affondo lirico, che nell'esibito calco manzoniano dà anche una chiave di lettura del singolarissimo testo che si è attraversato: "Di tal genere, se non tali appunto, erano i pensieri d'un letterato italiano mentre il locomotore si staccava a novanta all'ora dalle rive fluviali e lacustri in vacanza delle distensiva, della pacificante Ginevra". C'entrerà l'evidente somiglianza fra la topografia lecchese e quella ginevrina, con il lago che stringendosi prende la forma di fiume, ma non è un'aspirazione illuminista quella che risulta dall'elogio della pedagogia in cui sbocca la cronaca da Ginevra? L'idea è di un addestramento a mettere in rapporto aspetti diversi della realtà, con un fine di chiarimento e, se si può, di modificazione dello stato delle cose. Un'igiene della cultura, una trasmissione del sapere che sia anche profilassi a difesa di futuri orrori. Silvia De Laude  

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Gianfranco Contini

(Domodossola, Novara, 1912-90) filologo e critico italiano. Ha insegnato filologia romanza nelle università di Friburgo e Firenze e, da ultimo, nella Scuola normale di Pisa. Con le sue illuminanti riflessioni teoriche ha contribuito all’evoluzione e al rinnovamento della critica testuale, elaborando in particolare un metodo critico-filologico che, attraverso l’analisi delle varianti, ricostruisce il processo formativo del testo in tutte le sue implicazioni storiche, estetiche e stilistiche. Fra i suoi numerosi saggi, caratterizzati da un linguaggio denso e coltissimo: Esercizî di lettura (1939), Un anno di letteratura (1942), Saggio di un commento alle correzioni del Petrarca volgare (1943), Varianti e altra linguistica (1970), Altri esercizî (1972), Una lunga fedeltà (1974, su E. Montale),...

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