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L’elefante mangia fino a 135 kilogrammi di vegetali al giorno, ha una memoria prodigiosa, è mansueto e imponente: simbolo di rigenerazione e iniziazione, ha donato la propria testa al dio Ganesh, assurgendo al mito che gli compete. Quale creatura infatti è così straordinaria, capace di incutere terrore in battaglia agli avversari, ma anche in grado di allietare l’essere umano quando usa la sua proboscide per inondarlo di acqua o portarlo sul dorso? Vicino all’uomo da quattromila anni, il colosso dalla pelle grinzosa lo accompagna sommessamente, non è come il cane a cui tutti attribuiscono la fedeltà nei confronti del padrone, ma in realtà ne è espressione di sogni e paure molto più del collega domestico. L’elefante, con la sua lunga proboscide, è il simbolo di un mondo che sembra lontano ma si intreccia incredibilmente con la nostra storia. Basti pensare ad Annibale e ai suoi 51 pachidermi, sempre più decimati, fino all’ultimo esemplare, Surus, a cui dedicò grandi onori e dedicò una città – o all’iconografia di certe cattedrali come quella di Otranto, dove sono raffigurati sul pavimento. La storia europea ne custodisce la figura gelosamente, seppur non in maniera esplicita (il grande scrittore portoghese Josè Saramago dedicò un suo libro al rapporto uomo-elefante ne Il viaggio dell’elefante, stavolta partendo dal Portogallo per andare in Austria). Si pensi ai tanti bestiari medievali: nel Fisiologo, probabilmente scritto ad Alessandria tra il II e il V secolo, poiché partorisce di rado e la gravidanza dura 22 mesi, diventa simbolo di castità e mansuetudine, privo di “brama di congiungimento carnale”. Quando decide di partorire si reca in Oriente e mangia la mandragora, albero dalle proprietà afrodisiache. La femmina si nutre per prima e poi induce il maschio in tentazione, il quale poi si congiunge alla compagna che concepisce “nel ventre”. Si tratta di una chiara similitudine con le vicende bibliche di Adamo ed Eva, dove la donna tenta l’uomo.
Mazzarello racconta di un viaggio non solo zoologico ma politico e sociale, immerso in una atmosfera quasi epica, che ricorda le avventure di Salgari: l’India è contesa fra grandi interessi, e stimolare in Europa l’immaginazione e la curiosità dei potenti può aiutare a costruire nuovi ponti e realizzare succulenti affari. Questo breve ma intenso resoconto, simile ai resoconti di Darwin per la capacità di stimolare curiosità e immaginazione, esplora il mondo animale e narra di un lungo viaggio che andrà dall’India fino a Versailles, ma vedrà il suo epilogo a Pavia, quando Napoleone in persona verrà a visitare la città, discettando di scienza e politica. La data di partenza è 12 febbraio 1772, l’organizzatore del trasporto un tal Chevalier, un avvocato avventuriero divenuto dopo molteplici traversie governatore, il quale decide di inviare alla menagerie del re un esemplare femmina di elefante, per ingraziarsi il re e usufruire di eventuali benefici.
Recensione di Andrea Comincini.
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