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Primo approccio con questo autore che da tempo volevo conoscere. Non è facile parlare di questo libro, l'argomento è alquanto ostico. Inizia subito con il funerale del protagonista del quale non sappiamo il nome, ma non è importante perché come dice il titolo potrebbe essere chiunque, perché ognuno di noi prima o poi dovrà confrontarsi con l'inevitabile. La trama è incentrata proprio su questo, il protagonista e il suo rapporto con la malattia, il decadimento fisico e la paura della fine di tutto. Ripercorre a ritroso l'incontro con questa realtà fin dalla sua infanzia, quando vede per la prima volta un corpo morto, poi con i primi ricoveri in ospedale. Dopo tre matrimoni falliti si ritroverà solo a lottare con i vari interventi chirurgici a causa di una salute precaria e a riflettere sulla sua vita e su i suoi sbagli. Un romanzo crudo che a me ha lasciato l'amaro in bocca.
Mi piace la scrittura di Roth. Un buon 4/5.
Everyman, ogni uomo. La vita di un uomo attraverso le sue malattie. Un libro scomodo, duro, e umanissimo. Pieno di una straripante voglia di vivere, anche se in mezzo al disastro. Come al solito Roth è un maestro: ti prende e ti porta via, con lui, dove vuole e come vuole. Questo libro ha il ritmo angosciato di chi vede avvicinarsi la fine, ed è denso, densissimo. Perdere una sola parola, una frase, significa perdersi. Ci si può solo lasciare andare e seguirlo, dove va, senza indulgenza e senza pregiudizi. Quello che si trova è un uomo, senza veli e senza reticenze. Un libro indimenticabile.
Recensioni
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Ricordate la scena del becchino e dell'astante nel quinto atto dell'Amleto? Ebbene, forse nell'eco di quello scambio di battute c'è la più bella mossa a scacchi che Philip Roth ha giocato alla fine (per ora) della sua carriera di scrittore. Everyman, il suo quinto romanzo del nuovo millennio (e il venticinquesimo), che trae titolo e senso (il giorno del giudizio, la resa dei conti, inferno o assoluzione) da una morality medievale, è piuttosto una partita fra due "clown": il morente (lo scrittore) e il suo necroforo (i lettori, la critica). La fossa per la sepoltura (come nell'Amleto) va scavata ad arte: come un'opera d'arte. Questo è l'entente delle pagine finali dell'Everyman di Roth. Infatti, più che dall'altro Everyman, nell'episodio del colloquio nel diroccato cimitero ebraico del protagonista con l'operaio di pelle nera che lavora alla prossima inumazione, si sentono suoni da quella ben nota scena scespiriana. Ma al di là di tale mossa, Roth (e i suoi vari doppi: Portnoy, Zuckerman, Roth, Kepesh), sepolto (o autoaffossatosi) e resuscitato più volte, tormentato ora (a settantatre anni) dai malanni, dai divorzi e dal momento mori, non sembra voler mollare la pennellata d'arte, soprattutto una volta che l'ha riacchiappata con sapienza proprio con quest'ultima breve prova. Everyman, nella sua miglior vena umoristica (quella che lo fa celebre con il Lamento di Portnoy ,1969) e la forma snella e ben mirata, si può dire, senza remore, il vero gioiello di Philip Roth (non più il minore fra altri geniali Roth). Dunque, la "fossa", che si è già preparata (nel caso tornasse necessaria), è scavata con perizia di abile artigiano, con cura e attenta misura, assolutoria di pecche e peccati (artistici e umani) anteriori, con in più l'affinamento senile (malinconico) di quella verve comico-grottesca con cui, poco ortodossamente, ha sempre osservato lo sfaccettato stereotipo ebraico.
Se c'è, infatti, qualcosa che Roth non ha perso con gli anni, è proprio lo humour, malgrado la perdita di freschezza nella scia dei primi successi. Dopo il terzo romanzo, Portnoy, un manifesto spregiudicato del comportamento sessuale del maschio (e dell'ebreo) americano, gli intoppi iniziano a manifestarsi con, per esempio, Il grande romanzo americano (1973), Il professore di desiderio (1977), Lo scrittore fantasma (1979), in cui fanno la prima comparsa alcune delle sue ricorrenti "controfigure", che, allontanatesi ormai dai tabù e dalla "legge della memoria" del ghetto parentale, vivono integrate (ma ancora con molti tratti psico-culturali delle loro origini) nella grande macchina sociale americana, alle prese spesso, non tanto con i problemi del paese o dell'ebraismo (ma non sarà un depistaggio?), quanto con i propri conflitti matrimoniali, la psicoanalisi e le ambizioni professionali. In tale vena (alla Bellow e alla Malamud) Roth tenta chiaramente, in quegli anni di sconquassi nazionali, la strada del mitico "grande romanzo americano", nella tradizione classica che va da James a Faulkner. L'operazione allora non gli riuscì. Ed ecco intervenire una crisi della mezza età, quasi un'afasia camuffata: la voce narrante s'è smarrita, infatti, fra i dilemmi della carne e il fantasma della scrittura. La psico-commedia dell'ebreo americano, medio o celebre, è finita.
Presto il suo nome è annebbiato almeno dall'ascesa dell'altro Roth americano, Henry, l'autore di quel capolavoro dimenticato che è Chiamalo sonno. Pare necessario un ripensamento, riacquistare una distanza (in Cecoslovacchia, Londra, Israele), con La controvita (1986) e L'orgia di Praga (1987), per ricominciare a guardare alla patria. Nel frattempo s'è chiuso il Vietnam. Cade il muro di Berlino. Sono la lontananza, l'età e la malattia che riportano al cuore delle cose. Gli Stati Uniti (e i concittadini ebraici) vanno riconfrontati. A sessant'anni Roth, scrittore fantasma, ritrova il suo volto nello specchio. Una nuova vena, più profonda e seriosa, ha messo radici nello sguardo aperto alla storia. A partire dagli anni novanta si sgranano, come da un rosario, ben dieci romanzi fra i quali: Operazione Shylock (1993), che introduce il tema del "complotto" nello sdoppiamento di due protagonisti "Roth" (uno dei due, quello cattivo, dice che Israele dovrebbe rinunciare al suo Stato e i suoi abitanti, in una nuova diaspora, devono tornare ai loro paesi originari); e Il teatro di Sabbath (1995), un manifesto comico alla Portnoy sulla vecchiaia (non sull'adolescenza), in cui, con una consapevolezza ironica dell'esistenza della morte, si pone la ricerca di energia creativa, di un nuovo possibile varco. È qui il vero momento di transito, la strada che spingerà Roth alla svolta del secolo.
Ora il confronto con la storia occupa le riflessioni di un maturo intellettuale. "Ci si prepara alla vita in un certo modo", ha affermato in un'intervista, e poi la storia irrompe in casa tua, la incendia, e tu sei disarmato: "La storia è una cosa improvvisa" (strana affermazione per un ebreo! Di nuovo un depistaggio, un messaggio ai correligionari americanizzati?). Nasce la trilogia di Pastorale americana (1997) e i meno convincenti Ho sposato un comunista (1998) e La macchia umana (2000): Vietnam, maccartismo, razzismo. Le tentazioni dell'eros, però, debolezza incallita, persistono, forse come fuga terapeutica o sedativa.
Pastorale americana pare il traguardo più compiuto, è qui che si ripetono quelle parole sulla storia. Si tratta di un ritorno, con occhiali da miopia (ma per chi?), al mondo della pseudo-innocenza neoamericana, lasciata indietro nel sicuro porto ebraico di Newark (la patria promessa che fa da sfondo a tutte le sue opere), nel New Jersey, dove Roth è nato da laboriosi figli di immigrati. È lì che la Storia fa irruzione nel paradiso del benessere: l'eco (ora in frantumazione) del sogno americano. Gli anni sessanta e il Vietnam dei figli (quelli che vanno e tornano in buste di plastica e quelli che, nelle marce non violente, protestano) non coincidono più con la gratitudine lealista (o conformismo?) della generazione rifondatrice. Merry Levov (nomi allusivi), la figlia adorata e degenere dello "Svedese", è una pacifista terrorista, una sventata bombarola. Il sogno di promesse crolla assieme al corpo (che tanto s'era distinto negli sport mitici americani) dello Svedese, attaccato da quel male subdolo che arriva lesto, in silenzio, e (per Zuckerman/Roth) proprio sulla ghiandola di quell'organo così virile che coinvolge almeno una forma di creazione (ma sarà il solito senso di colpa per le scappatelle che causano i divorzi e la rovina delle famiglie costruite su sani princìpi americani). Ed è qui, in casa di chi certa storia americana non l'ha vissuta prima (rivoluzione, secessione), che la storia fa breccia, distrugge il patto dell'immigrato con la neopatria, e la "pastorale" esplode in una bomba.
Con Complotto contro l'America (2004) rientra in scena la "congiura" antisemita. È un romanzo problematico, dall'ipotesi realistica e l'intento oscuro, forse mascherato. Se l'eroe dell'aria, il filonazista Lindbergh, fosse diventato presidente degli Stati Uniti cosa sarebbe successo? Roth ce lo mostra in un denso diario pseudostorico che va dal 1940 al 1942 (riserve di concentramento, pogrom, anche in America, fughe verso il Canada, terrore, eterna paura, profanazioni, assassini, colpi di stato, ruolo equivoco di alcuni ebrei). Sul lieto fine (il ritorno di Roosevelt o di Bush? o Bush è Lindbergh? e l'entrata in guerra per salvare il mondo dall'antisemitismo), sembra risolversi ambiguamente tutta l'idea del "complotto" fascista. Ricordiamo: Roth è stato spesso criticato per la sua (apparente) non ortodossa iconoclastia.
La storia recuperata torna silenziata (magari nel cadavere di un sabotatore tedesco annegato, visto da bambino) a dar corpo al breve Everyman. C'è sempre un donnée iniziale nell'ultimo Roth (alla James). Qui è il funerale dell'anonimo protagonista senza più religione e un dio. Consegnato alla fossa dai familiari, lui, rimasto solo, si concede all'ultima confessione. L'"Ognuno" laicizzato, figlio di un intenditore di diamanti e proprietario dell'"Everyman Jewelry Store" di Newark (si noti il gioco su quel "jew-elry"), che ci parla dall'aldilà, più che un corpo è ormai un sistema di aggeggi sofisticati, gioielli della facile chirurgia (sei stent, by-pass, defribillatori, scatoline metalliche), ricoperto dalla pelle di sempre. Costui era, in realtà, un pubblicitario in pensione, pluridivorziato, il quale, dopo l'11 settembre (il complotto non è più fantadistopia), decide di rifugiarsi a far l'artista in una colonia per anziani sulla costa del New Jersey, dove la solitudine, l'"alterità" del dolore fisico e il senso di fallimento lo portano a vagheggiamenti di suicidio (come quello di Ofelia: il suicidio è difesa del corpo o offesa al corpo?). Il tema stavolta è la malattia, ma la malattia come metafora di un decadimento più generale, nazionale, non solo etnico (o del maschio recidivo). Il corpo spaventato e violato (malato) dell'America (e dell'ebraismo?) s'è disfatto, robotizzato nel rammendo, distrutto non tanto dal male ma dalla prevenzione (forse arbitraria) al male. Al consueto paesaggio si sostituiscono le sale d'ospedale, dove infatti il morente terrorizzato (con addosso tanti peccati e sensi di colpa), alla fine, muore sotto i ferri. Il terrorismo di Al Qaeda, come "alterità", s'è trasferito gradualmente nelle mani dei mascherati tecnici coronarici ("il loro aspetto gli fece pensare ai terroristi"). E così, Philip Roth, che inizia con lo humour trasgressivo e passa per le ferite della storia, si rifinisce bene, infine, nell'allegoria.
Caterina Ricciardi
Dopo il romanzo dedicato all'ampia «storia alternativa» dell'America, Philip Roth scrive un elegiaco inno alla vita, vista però dalla prospettiva temporale della vecchiaia, dove lotta e rassegnazione, nostalgia e impotenza si contendono le pagine del romanzo.Il protagonista è un pubblicitario di successo di cui il narratore ripercorre l'intera vita secondo una linea squisitamente corporale. Grande rilievo hanno perciò le disavventure ospedaliere (dall'ernia inguinale dei nove anni ai cinque bypass, per finire con le numerose operazioni che hanno segnato gli ultimi anni di vita), a cui fa da contrappunto la vita sentimentale: i tre matrimoni, il distacco dai primi due figli; la nascita dell'adorata Nancy; la scelta fallimentare di sposare una modella danese molto piú giovane di lui; l'abbandono di New York a 75 anni per trasferirsi, dopo l'11 settembre, in un villaggio per pensionati a dipingere. Qui, nel New Jersey, la stagnazione della vita si rivela per intero nel tentativo fallito di sedurre una ragazza che fa jogging lungo la promenade del villaggio. Un crescendo di drammaticità che culmina con la morte dei genitori e nel colloquio – degno di Shakespeare – con il becchino del cimitero ebraico che li sta seppellendo. Poi l'arresto cardiaco e l'ingresso nel nulla.
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