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Fame - Isabella Corrado - copertina
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Fame

Descrizione


Il trentenne Derek Zinni è affetto da una forma poco chiara di fame compulsiva e decide di cominciare un percorso di psicoterapia. Manuela Riva è un'aspirante artista. Dopo cinque anni passati a Londra, torna a Roma ma sulla sua strada trova solo un lavoro da stagista, una madre ambiziosa e un padre costretto a nascondersi. Anche lei è costantemente alla ricerca di cibo. Quando le loro strade si incrociano, i due non sanno che c'è qualcosa che li unisce: il sentirsi difettosi, forse. E il bisogno di riempirsi. Un romanzo di formazione in cui i protagonisti, in una sorta di terapia di gruppo a cui siamo costretti a partecipare, provano a comprendere il nostro tempo "liquido", in cui nulla è stabile e definitivo (luoghi, lavoro, affetti, fede). Una generazione che ha "fame" di tutto, come se fosse divorata da una pulsione che diventa quasi ingordigia. Ed è proprio la voracità, che troppo spesso lascia il posto alla rassegnazione e all'inappetenza, la vera protagonista di questo romanzo-rivelazione, capace di "fotografare" questi anni, come pochi altri libri hanno saputo fare.
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Dettagli

2019
20 marzo 2019
162 p.
9788868814236

Voce della critica

Ancora una volta mi trovo a Roma, una città di schiavi, per motivi che stanno a metà tra il lavoro e il gradimento. E sono riuscito a ricavare una serata tutta per me, perché si sa che ogni tanto c’è bisogno di un po’ di solitudine, e di un pasto che possa sfamare me e lei, la solitudine intendo.

Ho scelto un locale tranquillo, medio, senza troppe pretese. Ho ordinato un piatto tipico, ma non troppo elaborato, perché ho soprattutto voglia di essere saziato da qualcosa di semplice. E anche lei. La solitudine intendo.

Ma è già passata mezzora e ancora non mi hanno portato nulla. E la fame aumenta. Solo che invece di spazientirmi sorrido. Perché ripenso all’ultimo libro che ho letto, e mi accorgo che quell’attesa è il modo migliore di ripassarlo e di ripensarlo; mi accorgo che quell’attesa è già un pasto, mentre ne attendo un altro. Anche il titolo: Fame (161 pagine, 15 euro), di Isabella Corrado, pubblicato da Ensamble edizioni, è perfettamente a tema col brontolio del mio stomaco. Anzi, proprio per questo sorrido invece di arrabbiarmi. Perché quel titolo mi richiama a quell’attesa, a molte altre ancora, e trasforma un vacuo tavolino anonimo in un luogo di pensiero. Non ho più accanto un evidenziatore e una penna, per segnare frasi e parole che mi hanno colpito, o per mettere giù qualche postilla da trasformare in recensione, ma solo una forchetta e un coltello che aspettano come me che arrivi qualcosa. E vanno più che bene, perché la fame ha sempre bisogno di due posate che ti facciano compagnia mentre aspetti che arrivi qualcosa. O qualcuno.

Alla sua prima esperienza editoriale, l’autrice di questo romanzo trasforma la semplice occasione di una lettura in qualcosa di molto complesso, non già perché sia la storia ad essere intricata o difficile (tutt’altro), ma perché complessi sono gli andirivieni di pensiero che, fin dalle prime pagine, vengono messi in moto da un racconto che ti coinvolge, proprio a partire dal titolo. La fame è qualcosa che condividiamo tutti; le sue forme sono così tante che è impossibile non essere affamati di qualcosa, e dunque cominci a sfogliare quel libro come fosse un menù: vediamo cosa c’è di buono oggi!

Cominciano le descrizioni, comincia a dipanarsi una trama precisa in cui i personaggi portanti, un po’ per volta, vengono esposti alla luce di un vetro cristallino, che ti permette di vedere non solo come sono fatti, ma come sono stati “preparati”, dalla loro vita propria come dall’intenzione della loro creatrice. È come quando assisti alla preparazione di un gourmet, da dietro il vetro di certi ristoranti che ti permettono di veder nascere un capolavoro, e tu stai attento a tutti gli ingredienti, alla loro chimica quanto letteraria successione, al loro processionale contributo a ciò che, infine, costituirà il sapore d’insieme.

La Corrado imbastisce questa storia in modo sapiente, senza accelerarne i tempi di cottura, senza sprecare inutili sbollentamenti di spirito e di parola, riuscendo a far sfrigolare ogni elemento narrativo, scegliendo benissimo tra la tutta fiamma e il fuoco lento. E ciò ti permette di farti uno sguardo veloce d’insieme con la stessa comodità con cui, un po’ per volta e senza correre, ti soffermi a scoprire i personaggi.

Derek e Manuela, entrambi affamati. L’uno di qualcosa di non immediatamente chiaro, che diventa compulsione e spasmo; l’altra di tutto ciò che non può afferrare per essere pienamente se stessa. La fame dell’uno e dell’altro si inseguono, come si inseguono loro, per completarsi a vicenda, come se una fame potesse diventare, davanti ad un’altra fame, un nutrimento!

Ma questo lo si comprende a piccoli passi. È chiaro fin dall’inizio, ma lo si capisce a poco a poco. Ed è questa la destrezza specifica dell’Autrice: ti consegna qualcosa di immediatamente comprensibile (perché pensi di sapere già di che cosa si parli e di come se ne possa parlare) e ti fa scoprire poi, a ritmi precisi ed eleganti, che non sapevi assolutamente nulla di ciò che credevi di sapere. Del resto… sapere e sapore hanno una radice in comune, e finché non degusti non puoi dire di aver veramente conosciuto. Anzi, potremmo proprio dire così: Derek vuole sapere! Manuela cerca un sapore! Sapere aude!, diceva Orazio: Abbi il coraggio di conoscere! Ma qualcun altro diceva che colui che ti ama, colui che tu ami, nello svincolo di ogni possibile relazione dell’anima con un’anima affine, lo puoi conoscere attraverso quel gusto di cui solo l’anima è capace: Gustate e vedete com’è buono…

Il Signore ha già ordinato?

Accidenti, direi! È già passata un’ora. E sto ancora aspettando che mi portino la cena!

Ma non riesco ancora a innervosirmi. La fame mi aiuta. Mi aiuta a capire. A ricordare.

E a rileggere certe espressioni che costituiscono i tratti somatici di tutto il romanzo. Frasi e parole che stanno a metà tra una precisa scelta stilistica ed una chiara esigenza espressiva. Paragonandole davvero a dei tratti somatici, sono un po’ come certe espressioni di bambini: ti dicono tutto di loro, ma ti rimandano subito alle facce di mamma e papà. Così, appunto, appaiono molti elementi della narrazione: ti parlano del romanzo in quanto tale, di questa creatura, ma anche di chi l’ha messa al mondo. E tu dici: Guarda un po’ questa frase! Sembra proprio descrivere Isabella! E poi ti ricordi che ne stai solo leggendo il libro, e tu non la conosci.

Sono i miracoli della scrittura. I miracoli di una scrittura che non è assolutamente a tutti i costi (come presuntamente quella di Hamed, uno dei personaggi) ma proprio a costo zero! Perché non ti costa nulla, letteralmente! Non fai nessun sacrificio a dover leggere questa storia! Non hai la sensazione di aver “speso” del tempo o qualunque altra cosa. Anzi, alla fine ci hai guadagnato senz’altro.

E se anche, dopo aver letto l’ultima pagina, il testo del libro appare ormai irrimediabilmente ferito da tracce di evidenziatore e fendenti di bic, capisci che questi accidenti ti hanno arricchito. Sono segni di martirio sulle pagine, come piaghe sul corpo di un Essere inspiegabilmente vivo, dentro le quali puoi ancora mettere le dita per risprofondare dentro quella storia e renderti conto che la tua presenza in mezzo a quelle pagine non era casuale, perché in fondo hai fame anche tu!

E capisci anche che se hai quella pressante sensazione di conoscere l’autrice, è perché lei ha fatto come minimo tre cose degne di nota, e sono sicuro che almeno una di queste non è stata pensata come una strategia narrativa, ma le è venuto naturale.

1 – Trasformando i due protagonisti in narratori di primo grado, ci ha permesso di ascoltare direttamente da loro la descrizione di ogni sentimento, di ogni stato d’animo. Come se, in un tempo successivo al racconto, ciascuno dei due avesse voluto condividere la sua storia con noi, senza perdere dunque l’abitudine a scrivere il proprio… diario. Un narratore (narratrice) onnisciente appare solo alla fine, con una discrezione che definirei poetica, una grazia anacronistica, come certi telegrammi. È l’onniscienza di chi, pur sapendo, ha voluto tacere fino a quel momento. Lasciando che fossero Manuela e Derek a raccontare la propria storia.

2 – L’autrice, facendo parlare loro anziché considerare un tesoro geloso il voler raccontare lei stessa, e compiendo in questo una vera e propria kenosis, un abbassamento per amore dei suoi personaggi, si trova nella condizione di doversi provare in stili che non si somiglino troppo; se no Derek e Manuela parlerebbero allo stesso modo, sarebbero già la stessa persona. Ella utilizza dunque due registri diversi, che davvero fanno gustare appieno quelle due singolarità: lei, Manuela, ti parla in modo meravigliosamente chiaro, usando una comunicazione che “ti presuppone”, che cioè rispetta l’intelligenza del suo uditore: in certe frasi hai l’impressione che Manuela sia proprio lì, ne senti la voce e ne scorgi i tratti del viso, perché il suo modo di parlare è talmente colloquiale che in certe sue espressioni vedi davvero ciò che lei sta vedendo, o senti ciò che sta sentendo. Capisci che lei intende descriverti certe sue suggestioni partendo dal fatto che sicuramente tu le abbia provate, almeno qualche volta. Questo si dà, per esempio, in frasi come: Il Tevere scorreva: ordinario (già nella prima pagina). Uno potrebbe chiederle (a Manuela o ad Isabella? Boh… Bellissimo!): “E chi ti dice che io sappia a quale ordinarietà ti riferisci? Non lo so come scorre il Tevere quando scorre ordinariamente!”. E quindi te lo devi immaginare. E infine lo vedi. E ti rispondi da solo. Oppure… E pioveva, di quella pioggia sottile. Come a dire: “Hai capito, vero? Sì, esatto, mi riferisco proprio a quel tipo di pioggia lì!”. O ancora… Sudata, di quel sudore acido. Che significa: “So per certo che capisci esattamente quanto possa essere fastidioso!”.

Questo stile lo considero tanto rischioso quanto rispettoso. Rischioso perché in ultima istanza non potrai mai sapere se il tuo lettore capisca fino in fondo a cosa tu ti stia riferendo; poco male. Rispettoso perché, di fatto, quando parliamo con qualcuno, e ci parliamo in modo autentico e vero, non mettiamo tutti questi filtri e semplicemente diamo per scontato che, nell’esercizio della nostra rivelazione, lui ci capisca. Lasciamo spazio all’ermeneutica della sua intelligenza e della sua sensibilità. Come ha fatto l’autrice con noi. E poi… Tevere, pioggia, sudore… Quanta acqua! Sembra che Manuela abbia già bevuto abbastanza, e cerchi qualcosa di “solido” da poter assaggiare, con cui potersi nutrire. Chiederemo conferma a Giovanna Rooper, per almeno due buone ragioni.

Lui, Derek, è più rarefatto, più sfuggente, più enigmatico (almeno apparentemente), e il suo modo di parlare ti presuppone anche, ma in modo meno altruistico: il suo è quasi uno sfogo, un flusso di pensiero che ti raggiunge lì dove sei, da dove lui è. Non si cura, Derek, di parlarti in modo sempre immediato, secondo i tuoi parametri. Ha bisogno di essere ascoltato. E si fa ascoltare bene, perché anche se vive in un mondo molto distante da quello di un lettore medio, quando ha fame, ha fame esattamente come te. Ama corteggiare i fiumi metropolitani, e questo lo rende già oltremodo un personaggio interessante, degno di attenzione, e perfettamente ascoltabile. Chi corteggia i fiumi metropolitani deve per forza amare l’acqua, e la sua fame somiglia ad una “sete”. Derek è così. Di cose solide ne ha già avute abbastanza: ha masticato per tutta la vita ogni cosa gli andasse di mangiare. Ora forse ha bisogno di un bicchiere di acqua fresca, di quella che esce dalle fontanelle di Roma, per poter meglio deglutire tutto ciò che ha già inghiottito, compreso se stesso.

3 – Isabella Corrado, infine, fa parlare i suoi (e nostri) personaggi con tutta una serie di immagini che, come le ho già ho detto, potrebbero essere sviluppate ciascuna per conto proprio, tanto sanno essere pregne di suggestioni “autonome”; suggestioni, cioè, che nel continuum della storia si innestano concettualmente a ciò che si sta raccontando; ma prese da sole godono di una loro vita propria, assoluta, sciolta dal contesto e capace di comunicare a prescindere. Una destrutturazione voluta come in certi quadri di Picasso, o in certe sculture di De Chinto. Destrutturazioni che non vogliono spezzare un unicum, ma desiderano aiutarci a concentrare l’attenzione sui frammenti, per poter poi ricostruire il tutto con maggiore consapevolezza. Pezzi di autrice, sparsi un po’ dovunque, a rivelarci un’anima sopra, in mezzo, e dentro ai personaggi. Una scoperta importante, ma lo scoprii così, con la leggerezza di un mazzo di fiori, senza alterazioni che non fossero emotive. Avrei voluto che una videocamera registrasse le impercettibili oscillazioni dei miei aggrottamenti sopraciliari quando, trovando una di queste espressioni, inevitabilmente ne rimanevo stupito. Sono indeciso sul riproporne qualcuna, oppure lasciarle lì, attaccate al loro corpo.

Vorrei, ma non posso. Mi sembrerebbe di farvi entrare in una galleria d’arte senza farvi pagare il biglietto, lasciandovi passare dalla famosa porta sul retro. Ma d’altro canto una recensione è sempre una porta sul retro. Quindi entrate pure, ma… sarà una condizione strana questa: guardarsi sempre avanti e infine indietro, come se quello che siamo fosse un residuo del tempo.

Quanti minuti pensate che io sia rimasto a rileggere questa frase? Non perché non l’avessi capita, ma perché avevo la necessità di capirla a partire da me!

Il ritorno è sicuramente un destino poco comprensibile… così dice Isabella Corrado, consegnandoti una tra le più belle definizioni che si possano dare alla nostalgia. Ed io mi considero un esperto nel settore.

Capite a cosa mi riferisco quando parlo di pezzi di autrice? Certe cose non possono venire fuori solo da una necessità narrativa: sono frammenti di coscienza dati in prestito ai protagonisti del racconto, che ci permettono di sbirciare nel favoloso mondo dell’Es di chi invece, magari, non vuole essere disturbato quando si trova in compagnia dei suoi personaggi.

Vedo passare un cameriere. Ha in mano un piatto con una bistecca. Sento l’odore del sangue e il mio appetito vampiresco si moltiplica. Lo guardo in modo quasi ostile, perché è già passata un’ora ed io sono sempre lì che aspetto. Già. Come Manuela. Come Derek. E come in fondo tutti gli altri personaggi. Tutti cercano qualcosa, direbbe la Mannoia. Tutti hanno fame, preciserebbe la Corrado.

Perciò, mentre strofino convulsamente forchetta e coltello, che cominciano oniricamente a somigliare a Pauline ed Hamed (lei è sottile e sa ca[r]pirti, lui filosofeggia ed è abituato ai tagli delle sue lune storte), mi sovvengono tante altre cose, come una giacca che ad un certo punto si impone con una persistenza scenografica che la fa sembrare quasi una figura umana. Mi vengono in mente certe successioni che trasformano la carta in celluloide e i capoversi in fotogrammi, e ricordandomi di alcune scene ricche di ironia non posso che sorridere ancora, invece di spazientirmi.

Ce n’è una, in modo particolare, che me ne ha ricordata un’altra vista in un film. Derek ordina del whisky e un tizio alle sue spalle afferra il bicchiere e poi ci sputa dentro; la reazione è violenta: il tipo finisce con la faccia appiccicata sulla superficie del bancone. Sembra di rivedere Di Caprio in The Departed, mentre ordina un succo di lamponi per poi malmenare chi si interpone tra lui e la sua consumazione. Bellissima citazione! Se di citazione si è trattato: rivela un tocco di stile! Come un messaggio in una bottiglia! Se invece è stato un caso, beh… allora sono contento di aver letto il libro dopo aver visto quel film! Le cose finiscono con il richiamarsi sempre, e un testo è sempre ricco di citazioni, più di quanto il suo autore ne disponga.

Il colpo di scena

E c’è anche il colpo di scena, che ovviamente non rivelo. Ma di libri ne ho letti tanti (in verità sempre troppo pochi), e mi stupisco di come… io non ci sia arrivato prima! Questo non può che incrementare l’ammirazione per Isabella Corrado, che in poche pagine non ci ha davvero fatto mancare nulla!

C’è modo e modo di scrivere e di raccontare. La passione ha sempre la meglio! E un primo romanzo è sempre una ribalta di passioni, che scorrono veloci e che ti danno il gusto di assaporare qualcosa di degnamente puro, non ancora corrotto da qualsivoglia parametro editoriale o stilistico. Eppure c’è lo stile, come pure il libro! Una creatura appena nata, bellissima, che l’esperienza e il plauso immergeranno nell’acqua stigia, rendendola invulnerabile al tempo.

Spero davvero che il vizio di scrivere, per un’autrice come Isabella Corrado, sia sempre più una passione che un lavoro, perché lavoro e passione sono due termini contrastanti… eppure versati nello stesso vaso di Pandora. E sono d’accordo. Talvolta coincidono, ma non sempre. E quando non coincidono accade di vedere la realtà spogliata di ogni artifizio, umile nella sua mediocre onestà, e allora la passione diventa arte, e se non fosse un’ossessione non potrebbe realizzarsi. Quando la realtà non riesce più a contenere le esigenze di una libertà che desidera esprimersi e raccontarsi, allora il pensiero è l’unico posto democraticamente libero. E noi lo chiamiamo letteratura, un’ossessione tra le tante. Una cosa però distingue quest’ultima dalle precedenti. L’appagamento.

Stasera non ho cenato. Ho atteso inutilmente. Ma esistono attese inutili? In realtà mi sono riempito di altro, nutrendomi di memorie. Sono tornato a casa, ho accarezzato la mia libreria e ho ripreso in mano il romanzo di Isabella Corrado. Ho sorriso ancora, riscoprendo le genesiache evocazioni della copertina. L’ho rimesso al proprio posto. Poi sono tornato sui miei passi e l’ho ripreso ancora, mettendomi a cercare tra le pagine una di quelle belle espressioni che mi avevano tanto colpito. Ne ho rilette un paio prima di riporre nuovamente il libro tra i suoi simili. Ma in un posto diverso. Ho riguardato lo scaffale, inclinando la testa per ottimizzare il tentativo di una prospettiva estetica che rispondesse ad un senso preciso di ordine e di idee, e ho spostato quel libro altre due, tre volte.

Ora riposa dritto, accanto a Fiesta, di Hemingway. Ed io ho più fame di prima.

Recensione di Nuccio Puglisi

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