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recensione di Boscaro, A., L'Indice 1998, n. 7
Sembra una fiaba, ma per fortuna questa è a lieto fine. Abbiamo davvero a disposizione una collezione di fiabe giapponesi condotta su testi originali scelti a loro volta con rigore scientifico, senza "addomesticature" per agevolare il lettore occidentale, un panorama esauriente di storie con una folla di personaggi tra cui perdersi. Il testo è inoltre corredato da illustrazioni fresche e coloratissime, da un puntuale glossario, che permette al lettore di impossessarsi appieno del significato di un termine giapponese invece di essere fuorviato da un'approssimativa traduzione, e da note altrettanto puntuali. E per di più in una traduzione italiana di godibilissima lettura. Tutto ciò è dovuto alla solerte maestria di Maria Teresa Orsi, non nuova d'altronde a imprese del genere, dato che è da anni la nostra migliore interprete di testi giapponesi, dalla classicità ai giorni nostri. In questo caso è stata affiancata da tre eccellenti traduttrici, che si sono così spartite il paese: Virginia Sica che si è occupata del nordest e delle fiabe degli Ainu, Maria Gioia Vienna del centro, Matilde Mastrangelo del sudovest, ottenendo un risultato altamente apprezzabile sia per omogeneità di scrittura sia per una certa originalità di espressione. A Maria Teresa Orsi si deve l'esauriente introduzione, che è molto più di una presentazione del testo: è un affascinante "excursus" sull'intreccio tra oralità e scrittura nell'antico Giappone, che ci mette inoltre al corrente degli studi più recenti. Non è male, di tanto di tanto, conoscere anche l'opinione dei critici giapponesi.
Sinora ci si era dovuti accontentare di singole fiabe per bambini (molto spesso accomodate alla morale europea), e di traduzioni da altre lingue di cui è meglio scordarsi; un altro po' è disseminato in riviste accademiche o di divulgazione nipponistica di inizio secolo di difficile reperimento. Per la cronaca, vale la pena di ricordare un testo uscito nel 1939 a cura di Mario Marega, "Il Giappone nei racconti e nelle leggende" (Laterza), che ha una sezione con nove fiabe, e "Urascima" [sic] "ed altri racconti giapponesi", a cura di Anna Maria Crinò (Fussi, 1947, con testo giapponese), con tre fiabe e un racconto storico. Tutto qui. Ecco la ragione della mia esultanza, che sarà di certo condivisa non solo dagli appassionati della materia, che potranno sbizzarrirsi nell'affascinante gioco della caccia a dove il tale "motif" è comparso per la prima volta, ma in particolare da tutti gli studiosi di cose nipponiche che, partendo da queste solide basi, ritroveranno nei testi letterari successivi, nelle storie per bambini, nei "manga", nei cartoni animati per cinema e televisione, il continuo rinnovarsi e ampliarsi di temi millenari.
"Fiabe giapponesi" propone fiabe popolari che nel loro lungo cammino - trasmesse oralmente per generazioni prima di essere registrate dagli studiosi di folclore - hanno trovato la strada per entrare e uscire dalla letteratura scritta in un processo di scambio continuo fra testo letterario e orale. Tale percorso rende molto difficile stabilire i confini e i tempi di trasmissione, dato che arricchisce e modifica, nei limiti del possibile, i paradigmi della storia pur mantenendone inalterate le funzioni essenziali. Queste fiabe in gran parte rispettano appieno le regole di un mondo meraviglioso dove "il soprannaturale non sorprende e non spaventa poiché costituisce la sostanza stessa dell'universo, la sua legge, il suo clima", se vogliamo prendere in prestito le parole di Roger Caillois, che certo di fiabe se ne intendeva.
Nell'universo giapponese al posto della bacchetta magica c'è un martelletto che, se usato a dovere, procura ricchezze, le metamorfosi sono all'ordine del giorno, gli alberi conversano amabilmente fra di loro, i talismani non mancano, esseri minuscoli riescono a sconfiggere demoni potenti. Le buone fate, è vero, sono merce piuttosto rara, ma in compenso abbiamo uno stuolo di animali riconoscenti, divinità dei monti o dei mari pronte a venire in aiuto degli esseri umani in difficoltà, fonti miracolose che ridanno la giovinezza, montagne che ricoprono i viandanti di monete d'oro: insomma, tutto ciò che la mente umana può escogitare per esaudire desideri apparentemente irrealizzabili. E se, come in tutte le fiabe che si rispettano, streghe e demoni abbondano, quasi sempre i nostri eroi riescono, se non a sconfiggerli, almeno a sfuggire alla loro minaccia. Eppure in questo quadro dove il soprannaturale è di casa e non stupisce, ma tutt'al più stimola verso un'avventura, si insinua talvolta un certo disagio, una soglia di incertezza di fronte all'irrompere di fenomeni inquietanti in un mondo apparentemente "normale", che la ragione non riesce a spiegare; e che suscitano, proprio in quanto tali, disagio e perplessità, se non terrore.
Verrebbe subito da obiettare che allora siamo in un campo diverso, che abbiamo abbandonato il terreno rassicurante della fiaba per avventurarci in quello più infido della letteratura fantastica, sempre che si accettino le definizioni di Caillois e di Todorov sulla necessità - nella letteratura fantastica, per l'appunto - del dubbio, dell'inquietudine, del timore (onnipresente) che le leggi del mondo, quelle leggi così rassicuranti e apparentemente inamovibili, siano state all'improvviso sovvertite. "Il canto del gatto", con la minacciosa presenza dell'animale che viene a sconvolgere un'esistenza tranquilla in un ambiente banale, quotidiano e credibile, offre un esempio. Ma anche il "Ragno d'acqua", "L'uomo senza ombra" e "La donna che non mangia" sembrano collocarsi al limite tra fiaba e fantastico, insinuando il dubbio che un animaletto inoffensivo o una bella ragazza con il solo difetto di uno scarso appetito possano per qualche capovolgimento delle leggi della natura trasformarsi in presenze minacciose, mentre la scomparsa dell'ombra come segnale di una morte imminente sembrerebbe un degno spunto per un sofisticato romanzo del terrore alla Poe.
Il ricco catalogo delle cosiddette fiabe di magia presentate nel libro non si esaurisce qui. Una buona parte è occupata da fiabe popolate da divinità che tuttavia hanno assai poco di numinoso, caratterizzandosi spesso come presenze casalinghe, quotidiane, capricciose nel loro andare e venire, nel recare doni o nel rifiutarli, ben disposte a condividere con gli esseri umani una ciotola di sakè. Anche in questo caso esse sembrano quasi rifiutare la logica della fiaba - analizzata tra gli altri da Max Lüthi - secondo la quale gli esseri ultraterreni, pur spiritualmente vicini ai protagonisti umani, ne sono di fatto separati da infinite lontananze. Proprio all'interno delle fiabe di magia si incontrano inoltre i personaggi più ambigui che "le zone incolte dell'immaginazione" popolare (sempre per citare Caillois) abbiano creato: gru e carpe, serpenti e ghiaccioli, usignoli e pesci che assumono sia pure temporaneamente aspetto umano e si fanno donne per compensare un debito di gratitudine o soltanto per entrare in contatto con il mondo degli uomini. Se queste figure sono quasi sempre positive e spesso patetiche (costrette come sono, una volta che la loro vera natura è stata rivelata, a far ritorno al loro mondo), di ben altra dimensione, complessità e "allure" è invece la volpe: infida, bellissima, pericolosa, seducente, specchio di un fascino femminile inquietante e inspiegabile.
Anche quando sono privi di ogni potere magico, antropomorfizzati e addomesticati gli animali occupano tuttavia una porzione considerevole nel pantheon della fiaba giapponese. Lupi e lontre, volpi e ranocchie, lepri e tartarughe, scimmie e granchi, oloturie e balene si combattono e si alleano, si ingannano e si sfidano, mentre la loro natura sostanzialmente vicina a quella umana viene sottolineata nelle fiabe di tipo eziologico che fanno di molti animali, come la tortora, il passero o il picchio, antiche metamorfosi di esseri umani. Un'altra ricca pagina ci trasporta invece sul terreno dell'aneddoto, del racconto a sfondo comico, un po' salace e un po' beffardo: non è difficile ritrovare nello sciocco Gutsu o nell'ingenuo Kichiyomu le stesse doti di ottusità del Pigro Cecco o Gianni Testa-fina dei fratelli Grimm. Anche qui il soprannaturale ha un ruolo del tutto marginale, ed è sostituito da una saggezza popolare e contadina, una morale che incoraggia il buon senso più che la virtù, non disdegna la furbizia e l'inganno, ma condanna l'avidità e l'avarizia, ama i giochi di parole, i doppi sensi un po' ingenui e un po' grossolani. Sono le fiabe più immediatamente fruibili, se non fosse per la difficoltà offerta più che altrove da problemi di traduzione.
Nella maggior parte dei casi la comicità della conclusione è tutta affidata a giochi di parole; merito delle traduttrici è stato quello di riuscire a salvare lo spirito dell'originale, ma anche laddove è stato necessario - pena la totale incomprensione - ricorrere a note esplicative, la vivacità della fiaba, per quanto mediata dalle note e da aggiunte nel testo, non è stata troppo sacrificata.
Un apprezzamento particolare merita infine la scelta di aver incluso in appendice tre fiabe ainu (la minoranza indigena dell'isola di Hokkaido-). In realtà, si tratta di un genere tutto particolare che non rientra propriamente nel dominio della fiaba, estendendosi piuttosto a quello dell'epica o della leggenda. Recitate in lingua ainu esse sono state trascritte mediante i caratteri fonetici giapponesi e quindi tradotte in giapponese, e da questa versione è derivata quella in lingua italiana. Non possiamo non concordare con Maria Teresa Orsi quando afferma che queste fiabe, pur così diverse e così legate a un ambiente culturale estraneo a quello giapponese, "rappresentano una pagina di tale interesse da non poter essere ignorata". Rimane il rammarico di non saperne di più, e un invito quindi alla curatrice e alla sua équipe di proseguire l'opera.
Complimenti intanto per quanto già fatto. Deve esser stata una gran bella avventura.
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