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Figli di ferroviere rappresenta la piccola epopea di un popolo ormai scomparso. «A noi figli di ferroviere piaceva cambiare città, casa; allontanarci dai luoghi in cui stavamo e che non sentivamo mai nostri. Come se vivessimo sui treni, alla pari dei nomadi».
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Noioso. Proprio come le sue lezioni del corso di sceneggiatura degli anni '80. Difficile conciliare questo testo (ed il relatore del corso di allora) con lo sceneggiatore di film assai belli e interessanti. La narrazione è piuttosto piatta e monotona, le descrizioni approssimative, il ritmo narrativo assente. Giusto nel finale, con gli episodi relativi alla guerra, si trova una qualche vivacità. Ma decisamente troppo poco.
Recensioni
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I treni e le stazioni sono stati semmai gli sfondi di vicende romanzesche e letterarie (e da tempo anzi tendono addirittura a sparire dalla nostra immaginazione, come il nerofumo o il rumore della rotaia è sparito dal nostro viaggiare). Ma in Figli di ferroviere il rapporto è invertito. Come in una piccola epopea di un popolo scomparso, i tre bambini e le altre tribù di ferrovieri («A noi figli di ferroviere piaceva cambiare città, casa; allontanarci dai luoghi in cui stavamo e che non sentivamo mai nostri. Come se vivessimo sui treni, alla pari dei nomadi») intrecciano a tal punto le loro storie dal «secolo breve » col mondo ferroviario che sembrano queste lo sfondo, su cui, sommessamente, nostalgicamente, i treni e le stazioni chiedono di acquistare vita.
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