Questo è il secondo romanzo postumo di Angelo Morino, rintracciato nel computer dopo la sua morte improvvisa a Torino nel 2007. Ambedue autobiografici, i testi hanno al centro figure di donna. Ma se in Quando internet non c'era (Sellerio, 2009; cfr. "L'Indice", 2009, n. 7) il notoesperto di letteratura ispanoamericana riattraversava l'ordito letterario di una scrittrice cilena, Maria Luisa Bombal, ricostruendo la propria formazione intellettuale, qui Morino narra la malattia della madre, morta di cancro nel 1997, ripercorrendo al contempo, a blocchi alterni, la storia della sua famiglia, se pur variata e protetta dall'uso dello pseudonimo. Il romanzo è incompiuto e dobbiamo all'attenta cura di Vittoria Martinetto la redazione finale che opportunamente richiama una struttura cara all'autore: quella di un testo binario in cui il corpo centrale si articola in "note": frammenti narrativi di un sottocanto sospeso che consente di entrare nell'officina dello scrittore scomparso. Nella ricostruzione a ritroso dell'epos domestico, che procede in terza persona ma attingendo al parlato materno, scorrono i fotogrammi della storia di tanti italiani: l'emigrazione dei nonni nella Francia degli anni venti, il ritorno in un Veneto povero, percorso dai carrozzoni degli zingari provenienti dall'Est ("Chiedevano qualcosa da mangiare, pane, farina bianca o gialla, un pezzo di lardo, fagioli secchi
"), poi quella guerra che si piglia i figli e quando non ammazza ne mutila le membra. In primo piano la figura di dignitosa bellezza della madre, che andrà sposa in una valle piemontese a Rino, il partigiano sceso dalla montagna con tre dita storpiate, un uomo schivo e discreto, mentre di lei s'intravede il carattere indomito, e più tardi i rimossi di una gioventù non goduta, compromessa in quel difficile dopoguerra da una gravidanza non voluta: "No, proprio non lo voleva, un bambino. Era il peggio che potesse accadere. Certe volte, anni e anni dopo, l'avrebbe raccontato a suo figlio. Che non lo voleva e che aveva pianto, disperata, quando aveva saputo di essere incinta". Se è vero che la psicologia richiama le figure della retorica antica, il caso di questo figlio riprende il chiasmo. Fin dall'infanzia il rapporto con la madre si divarica nella doppia sollecitazione tra cielo e inferno, tra il sonno rassicurante di lui dodicenne ancora insediato nel letto materno e la condanna di un'urgenza erotica che il corpo adolescente gli impone. La speleografia degli intrecci confusi nelle prime pulsioni di un'inclinazione controcorrente è tracciata con mano soffice e salda. Dall'adolescenziale conquista di Susy, un primo corteggiamento dettato dalla norma sociale del gruppo, e peraltro umiliato dal cappio sarcastico della madre, alle segrete scorribande di amicizie maschili nella campagna intorno, fino alla consapevolezza del sedicenne di essere omosessuale, e dunque solo e sperduto come in un "deserto". Nel presente del romanzo quel ragazzo è ormai un intellettuale affermato e il racconto passa a una narrazione in prima persona, quasi un diario al capezzale, con il cancro che giorno dopo giorno devasta il corpo materno. Di fronte alla progressiva corruzione della carne tutto sembra disfarsi e lui, figlio unico proteso a lenire l'onda del dolore con la pietà della menzogna, cade al centro di un vivere grigio e torbido, penetrato dal grido continuo di una sofferenza ribelle. Perché lei, "pronta a insorgere, ad aggredire, non solo verbalmente", si rivolta contro lo scandalo di una malattia che le si è insinuata dentro, e colpisce il figlio, fino a che i suoi scatti d'ira, quell'asprezza irritata, quel suo abbattersi risentito sugli arredi di casa la ribattezzano nel suo "odio rabbioso, scatenato contro tutti". Sono pagine straziate, di eco tolstojano, che richiamano La morte di Ivan Ill'ic. In preda a un dolore lacerante e tenace, è la stessa madre, sull'ultimo ciglio della coscienza, a chiedere di morire. E non ci ha lasciato, Morino, senza confrontare il lettore con l'angoscia dell'eutanasia. La madre è per lui radice di sangue, sesso e dolore e con lei si chiude l'abbraccio, "in un nodo che sembra non doversi più sciogliere", con lei si spinge sulla soglia delle tenebre. Interrogandosi e lasciando a noi le risposte. Anche in questo senso il romanzo va oltre l'orizzonte di un testo incompiuto. Anna Chiarloni
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