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recensione di Corbellini, G., L'Indice 1995, n. 7
A quasi dieci anni dalla pubblicazione dell'edizione inglese, questo libro conserva intatte l'essenzialità e la chiarezza di linguaggio che ne fanno uno strumento certamente utile per il medico interessato a inquadrare le perplessità metodologiche e morali, che si presume dovrebbero coglierlo, in un più ampio contesto problematico. Tuttavia il tempo trascorso ha reso ancor meno accettabile la tesi fondamentale del libro, ovvero che la medicina non può fondarsi solo su uno studio naturalistico dell'uomo ma deve assumere dalla filosofia esistenzialistica e dall'ermeneutica filosofica le idee guida per superare le incertezze teoriche e giungere a una corretta impostazione dei problemi etici che le si parano innanzi. Nel corso di questi ultimi dieci anni la critica "filosofica" delle scienze biomediche ha culturalmente legittimato il diffondersi nella società occidentale di pratiche terapeutiche cosiddette "alternative", che si basano su inverosimili concetti della malattia e della natura umana. Non vi è dubbio che gli autori danesi erano in assoluta buona fede e il loro sforzo di conciliare il sapere umanistico e quello scientifico era autentico, ma probabilmente questo risultato si potrebbe ottenere con meno rischi seguendo un percorso inverso rispetto a quello che essi suggeriscono.
Di fatto essi presentano in modo del tutto corretto le istanze epistemologiche e metodologiche della ricerca e della pratica medica, così come i contenuti delle principali teorie filosofiche, sociologiche ed etiche. Tuttavia alla fine sostengono l'esigenza di subordinare l'approccio scientifico all'analisi filosofica sulla base dell'assunto che l'uomo sarebbe "qualcosa di più di un organismo biologico" e che questo "di più" si esprimerebbe nell'ansia esistenziale. Ergo le conoscenze biomediche riguardanti le basi fisiologiche delle malattie non sarebbero di alcun aiuto per affrontare i problemi che interessano la dimensione psicologica e quella sociologica della malattia. A livello della persona, della società e per definire i principi fondamentali dell'etica medica occorre ragionare utilizzando gli strumenti della filosofia.
Al di là del fatto che l'argomentazione nel suo insieme possa essere o meno accettata, il percorso logico seguito dagli autori è indubbiamente efficace. Il punto di svolta si trova nel capitolo in cui presentano il concetto naturalistico di malattia, ovvero l'ipotesi che la malattia possa essere definita come un difetto funzionale in rapporto alle caratteristiche specie-specifiche dell'organismo. Essi giudicano insoddisfacente questo tipo di approccio in quanto fondato su un concetto meccanico dell'uomo. In realtà il concetto dell'organismo umano che emerge dagli ultimi trent'anni di ricerche fisiologiche è tutt'altro che meccanicistico. Anzi, esso spiega benissimo come mai i ragionamenti causali in medicina debbano basarsi su inferenze statistiche, ovvero in quanto la variabilità delle risposte individuali è inscritta nelle dinamiche di sviluppo dei nostri apparati funzionali.
Tuttavia richiamandosi alle difficoltà di applicare il concetto naturalistico della malattia ai disturbi psichiatrici e individuando nell'angoscia esistenziale uno stato fondamentale della condizione umana, essi riconoscono alla filosofia soltanto la capacità di fornire alla medicina gli strumenti per affrontare il vissuto della malattia, che rappresenterebbe appunto quel "di più" che è precluso all'indagine scientifica. In tal senso la filosofia che serve alla medicina non è una filosofia qualsiasi, bensì la filosofia esistenzialistica di matrice kierkegaardiano-heideggeriana e l'ermeneutica filosofica.
A giudicare dai recenti contributi si direbbe che l'ermeneutica sia piuttosto intenzionata a disarticolare le basi razionali della medicina e a farci precipitare nel più oscuro medioevo. Infatti l'edizione italiana del volume danese è stata preceduta, nella stessa collana, dall'ultimo libro di Hans Gadamer, "Dove si nasconde la salute": un'opera che non fa davvero onore al fondatore dell'ermeneutica filosofica, dato che egli non va oltre le solite banalità sulla medicina disumanizzata e afferma anche diverse stupidaggini (come per esempio che l'astrologia produce previsioni corrette dei caratteri individuali).
Per quanto riguarda il contributo della filosofia all'etica medica gli autori ovviamente ritengono che un'etica della medicina debba basarsi "sulla concezione propria di Kierkegaard e di Kant, dell'uomo come essere riflessivo dotato di volontà libera; di conseguenza, le considerazioni utilitaristiche devono cedere il posto a considerazioni riguardanti l'autonomia dell'individuo e la giustizia nelle pratiche sociali". Francamente risulta difficile immaginare come un principio di autonomia e un principio di giustizia possano essere asseriti e difesi sulla base di una concezione "irrealistica" dell'uomo e della malattia. Nel passato è sempre accaduto che le teorie filosofiche, non meno di quelle pseudobiologiche, che attribuivano all'uomo connotati "metafisici" o "idealizzati" venissero utilizzate per sostenere politiche "sanitarie" razzistiche e discriminanti.
Negli ultimi trent'anni le scienze biologiche di base hanno fornito indicazioni abbastanza definitive sulla specificità della natura umana e probabilmente ciò di cui la medicina ha bisogno in questo momento non è tanto una filosofia priva di fondamenti "realistici", quanto di una maggiore consapevolezza delle implicazioni epistemologiche e culturali delle conoscenze biologiche.
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