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Siamo a Berlino, negli anni intorno al 1820: uno scrittore, vecchio e paralizzato, passa le sue giornate alla finestra dello studiolo, guardando il brulichio di gente che affolla la sottostante piazza durante le ore di mercato. Sviluppa così una straordinaria capacità di alimentare la fantasia e abbandonarsi alle più raffinate invenzioni partendo dall’osservazione minuta della realtà. Un giorno, ricevuta la visita di un cugino più giovane, decide di “iniziarlo” alla sottile arte del vedere. Ecco allora la massa anonima stipata nel mercato animarsi come per magia, e rivelare personaggi, scenette, episodi comico-grotteschi: vediamo una governante trascinare tra i banchi una fanciulla perché impari sul campo a contrattare e a far spesa; un enigmatico individuo alto e allampanato, vestito di grigio e di nero, immaginato prima come un laido insegnante di disegno e poi come un simpatico pasticciere francese; un miliziano cieco schiavizzato da una fruttivendola; un gruppo di carbonai, fra i quali spicca un nano forzuto e galante; una rissa tra ortolane; e così via, per una ventina di gustosissimi “quadri”. Dettata pochi mesi prima di morire, La finestra d’angolo del cugino – che, almeno per la situazione, ricorda (e forse ha ispirato) in qualche modo La finestra sul cortile di Hitchcock – è l’ultima opera dello scrittore, pittore, musicista Ernst Theodor Amadeus Hoffmann (1776-1822): un piccolo capolavoro, al quale egli affidò il suo testamento intellettuale ed etico, in favore di un’arte in grado di combinare al meglio invenzione fantastica e realismo.
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