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Il fiore dell'addio. Leonora, Manrico e altri fantasmi del melodramma nella poesia di Montale
Recensioni pubblicate senza verifica sull'acquisto del prodotto.
Grande Lonardi, grande professore e grande scrittore. Questo libro è veramente bello, non è solo un (profondo) studio di letteratura: lo stile di Lonardi è inconfondibile e appassionante, anche se si tratta di un saggio. Bravissimo perchè oltretutto anche l'impostazione della materia non era semplice, e il rischio era quello di ripetere le citazioni tra i vari capitoli. Lonardi stesso mi ha detto che è stato faticoso evitarle...
Recensioni
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Gilberto Lonardi, al quale dobbiamo somma riconoscenza per l'ormai introvabile volumetto Il Vecchio e il Giovane (1980, dove già segnalava l'"impurità" della poesia montaliana, nata, per sua stessa dichiarazione, nel solco metafisico di una jonction Browning-Baudelaire piuttosto che nella linea della poesia "pura" mallarmeano-simbolista ermetica), affronta oggi nel Fiore dell'addio un tema imprescindibile per Montale: e cioè quanta musica vi sia nella sua poesia, quanto melodramma; quanti fantasmi dell'opera, quante Leonora e quanti Manrico (per non dire di Manon e di Des Grieux, e delle loro arie più note) vi circolino seminascosti, o viceversa esposti come la lettera di Poe. È un libro, questo, che - come dire - ci voleva. Anche se recentemente sono uscite sillogi di studi su questo tema, che già Mengaldo aveva sfiorato da par suo; senza contare un generoso saggio di Mario Aversano pieno di suggerimenti intertestuali profusi a piene mani.
"E, in fondo - scrive a venti anni, nell'aprile 1917, Montale nel suo quaderno - diciamo pure tutta la coraggiosa verità: la letteratura è musica ". La sua fedeltà a se stesso, col segno rovesciato a partire da Xenia, sta nell'"intemerato sincretismo" che secondo Lonardi caratterizza il suo bisogno originario di afferrare il "senso ultimo" del mondo. Sta nella sua capacità di tenere insieme musica, memoria e filosofia, in una convivenza filosofico-immaginosa e musicale unita dalla poesia. Dove la filosofia sarà in origine soprattutto Sestov, il filosofo nemico giurato della ragione che "disunisce", il nemico del "due più due = quattro"; e la musica sarà in primis la memoria del melodramma, una memoria comune, ma anche una memoria che si sbriciola e va in pezzi nel secondo novecento. È il "grande stile", il "sublime in cenci" dell'opera al suo tramonto, nel momento in cui la crisi della forma chiusa musicale segna il crepuscolo della convenzione.
Questa "memoria comune" è parte costitutiva dell'idioletto di Montale, che già nel Quaderno Genovese si rammarica di non essere musicista, che studia canto (baritono-basso) dal 1921 al 1923, e che, infine, crede nella circolazione di energia fra arte e vita: dove l'arte, nata dalla vita, alla vita ritorni dopo il suo "oscuro pellegrinaggio nella coscienza e nella memoria degli uomini", in una sorta di "seconda vita dell'arte", come scrive nel 1949. Come il Montale del 1926 coglie nella poesia di Saba una sorta di pedale profondo, dato, come dice, da "non so che secondo spazio interiore", che "sa di lieder e di lontananza, di nostalgia e di inafferrabile presenza", così Lonardi cerca di far affiorare questo "secondo spazio" melodrammatico nella poesia e nella musica della poesia montaliana. E per questa intertestualità musicale, piuttosto che di "oculato bricolage", parlerei di modi e di un lessico, quello operistico, che è entrato a far parte della sua stessa grammatica poetica.
Lonardi affronta il suo complesso tema in vari modi: se da una parte individua con acribia l'uso e il riuso negli anni di alcune zone o frasi o arie di certe opere, dall'altra segue la presenza, variata nel tempo, dentro la sua poesia, di un'opera amata come il Trovatore. Il problema del rapporto col melodramma in poesia lo si può prendere da due manici (ma in ogni caso ci vuole orecchio): dalla parte cioè del libretto, o da quella della musica. Estremamente difficile, con la parola scritta, render conto dell'interazione fra le due. La puntuale, sottile indagine del critico, che non teme tuttavia lo sguardo ricapitolativo, dall'alto, e un'escursione totale, dal poeta Giovane al Vecchio, ci fa "sentire" in modo convincente, pur senza il supporto della musica, come per il Montale giovane conti la forma profonda del canto: il settenario con le rime esposte, spesso tronche, dove si colloca il rapido ricordo operistico (e così in Falsetto, in Perché tardi?... e in Casa sul mare troveremo Butterfly: "Un bel dì vedremo / levarsi un fil di fumo...").
Riconosciamo grazie a Lonardi un impulso di metro e di ritmo, più che di lessico, nella memoria del giovane Montale, vedi Favorita di Donizetti (atto II): "Giardini d'Alcazàr - de' mauri regi / care delizie...", e Montale del '22 in Corno inglese: "reami di lassù! D'alti Eldoradi / malchiuse porte...". O ancora le intonazioni patetiche introdotte da un "Ah!", così frequenti nella prima raccolta montaliana (e ricordo il valore semantico forte che assume, magari attraversando anche un certo Sereni, una clausola come il "Mah?" che chiude l'ultima poesia della tarda raccolta Altri versi, dal titolo: Ah!...)
La tendenza si inverte in direzione di un ritorno al libretto fra Ossi e Bufera: ma un libretto che ha ben presenti le sottolineature della musica, e ciò che la musica "dice" al di là delle parole. Come "un po' per non morire / al primo incontro" di Butterfly trova eco sul morire più che sul primo incontro, per la sottolineatura musicale. In Tosca Mario Caravadossi (tenore) canta di una cappella che "mette / a un orto mal chiuso, poi c'è un canneto": luoghi di realtà biografica, e in poesia troppo e troppo a lungo frequentati da Montale per non provocare un sobbalzo nel lettore; e ancora a Tosca sarebbe da attribuire il "passo lieve" delle apparizioni di Arletta. Mentre per i Mottetti (su alcuni dei quali abbiamo recentemente ascoltato una bellissima lezione con musica, parte di un lavoro in corso di Roberto Leporatti), interessanti osservazioni riguardano soprattutto la tecnica del contrappunto.
Con La bufera il discorso si complica, perché se è vero che il suo primo titolo era Romanzo, è al romance che rimanda giustamente Lonardi (impronunciabile parola, come osservava umoristicamente Montale a proposito di Eliot e Pound): al romance, con un protagonista, non più tenore, ma baritono-basso, conteso fra la Bionda e la Bruna... Lonardi aggiunge al già citato sistema orto-malchiuso-canneto, la fiammata incandescente del colore del fuoco del sistema arse - fiamma vampa fuoco dal Trovatore: con una bella lettura dei due testi conclusivi del Grande Stile montaliano, Piccolo testamento e Il sogno del prigioniero, "aria" ultima dove si addensano echi anche da Kafka e Leopardi. È una Bufera trovatoriana e scespiriana quella che Lonardi rilegge attraverso il prisma del melodramma, prima di approdare agli ultimi libri, e a Massenet e a Manon ("una delle più perfette tragicommedie di tutto l'Ottocento" a detta di Montale): con la ricomparsa di Clizia, e di Arletta sotto le spoglie di Annetta o della capinera.
Siamo con l'ultimo capitolo (Sipario) alla "malinconicissima consapevolezza" della fine: fine della giovinezza e di tutto, senso di impossibilità. Una storia che conosciamo, ma che ripercorriamo col fiato sospeso grazie alla scrittura di Lonardi, alla sua tecnica da thriller, che prima svela il debito, poniamo, verso Boine e Ceccardo, magari anche poi verso Pascoli e D'Annunzio, per aprire infine improvvisamente in altre possibili direzioni con la presenza del "di là" nel "qui" e nel quotidiano, nella musica di Puccini.
Emerge da queste pagine una complicità di cifra fantastica, e fin anche metafisica, come dice Lonardi, fra la voce della poesia montaliana e le voci del melodramma: pagine che confermano la centralità di Montale nella poesia nel ventesimo secolo, con la sua paradossale capacità di tenere insieme i contrari: dove i contrari sono complementari, ma, come scriveva Starobinski per Baudelaire, si completano per meglio esprimere che ogni pienezza è legata alla mancanza.
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