La metafore della costruzione sono invadenti nella giovane storia letteraria di Katja Petrowskaja: un ponte sono considerate le sue storie, un cantiere la prosa, un'opera di architettura la fluttuazione di memorie che setacciano episodiche e orribili il ventesimo secolo. Si butta così una scrittura di profuga e poliglotta sulla fragilità di questa nostra Europa, come se a unirne le lingue e la storie potesse essere la biografia di una giovane donna, ebrea senza convinzione, tedesca di adozione, a disagio nell'Ucraina dove è nata e nella Russia dove si è formata. Fragile e smaterializzato è invece quello che Katja Petrowskaja dice di sé: "sono un personaggio da road-movie, che non sa guidare l'automobile. La patria è per me una terra, che si può attraversare, ma dove non si può mettere radici". Non una romanziera (ribadisce ad ogni intervista), ma semmai una scrittrice di viaggio, che con Forse Esther ha composto un testo inguaribilmente eccentrico rispetto al "genere". Non si trovano descrizioni accurate, a stento l'autrice si ferma sulle figure che incontra tra le "stazioni" e solo quando sono pittoresche e manipolabili da una leggera vena di ironia, da una attenzione facilmente distratta, o quando assecondano un monologo interiore che si caratterizza soprattutto per mancanza di ossessività. Del suo cammino trattiene leggera un passato di cui vuole essere osservatrice e protagonista, restituito con semplicità, ma ricordando culture e letture, spesso gettate lì con sorridente noncuranza. Una tessitura difficile da tradurre che Ada Vigliani riesce a rendere con passione e intelligenza, assecondando scarti, variazioni e impuntature. Nel viaggio sono due i percorsi che si impongono. Gli incontri casuali, il pensiero continuamente in cerca di immagini ed emozioni, formano in Forse Esther uno spaccato efficace della storia del Novecento. "Avevo pensato bastasse raccontare di quelle poche persone che per caso erano miei parenti, e già avremmo avuto in pugno l'intero ventesimo secolo". Ma questo libro è soprattutto liberatorio e convincente, un controcanto alla mummificazione dell'orrore, ora che i testimoni stanno scomparendo e che la "seconda generazione" invecchia oppressa di memorie o di dimenticanze. Un coro di figure insolite, affettuose, con una loro vita di manie, sogni e ricette creano qui un tessuto di presenze segnato dalla vita che continua, oltre gli eccidi e le violenze, nella catena della generazione: "e ho capito che proprio lei (scrive della nonna) così refrattaria a qualsiasi legame con quel dolore, per cui alla parola ebreo si pensa subito ai sepolcri sicché essendo ancora in vita non poteva essere ebrea , ho capito dunque che proprio lei aveva imparato dai suoi nonni, a quei tempi ancora ebrei, tutte le pietanze sapide e succulente, e ne aveva adottate molte fra quelle che persino sua madre non conosceva più". Il "forse" della ricostruzione sentimentale di una discendenza partecipe di ogni piega del passato è sommessamente atto redentivo: storia delle vittime che, contrariamente a quanto diceva Girard, non viene liquidata nell'anonimato delle fosse comuni. Non c'è la pesantezza della memoria obbligatoria, né c'è il moralismo compulsivo che ha trasformato i figli dei perseguitati in castigatori poliedrici dei costumi tedeschi, da Biller a Menasse. Da dovere, la memoria diventa nelle pagine oscillanti e affettuose della Petrowskaja, evocazione di "sponde" (così diceva Beer Hofmann) in cui collocare una vita ricca di radici intrecciate nel tempo se non nella terra, una storia ebraica che caparbiamente continua e si trasforma: le vere protagoniste di questo libro mi sembra siano la pietà e la gioia di ricostruire una biografia familiare in cui tutto sfugge e tutto appare interessante e imperdibile, anche con il rischio che possa essere offerto pittoresco al degustatore di frammenti di vita vissuta. Un accumulo disordinato di racconti in cui l'autrice con l'ostinazione del suo presente cerca di mettere ordine, ma senza troppo impegno, e che, nella combinazione dei suoi elementi, si fa letteratura, celebrando così una vittoria definitiva contro gli assassini. Una versione attuale dell'invito hofmannsthaliano a cercare la verità nella superficie: non nella segnatura magica delle cose che lo spirito del mondo sontuosamente genera, ma nella superficie frammentata, episodica e disturbante di una storia familiare che si offre così disorganica da farsi un presente, un'identità. Troneggia quel forse del titolo (Forse Esther), lì in bilico tra la scrittura automatica golosa di annullamento, e la possibilità di un controllo di una storia che sfugge e viene di nuovo assemblata per un io che si fa setaccio, ma senza la missione di cogliere solo ciò che ha veramente valore, perché è ormai impossibile volerlo o anche solo intuirlo. "Dapprincipio (scrive la Petrowskaja) Heinrich Schliemann non si era accorto affatto della presenza di Troia, e questo perché aveva scavato troppo in profondità". R. Ascarelli
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