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La fortezza della solitudine - Jonathan Lethem - copertina
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fortezza della solitudine

Descrizione


Uno dei romanzi più noti di Lethem, narra la storia di Dylan e Mingus, due ragazzi, vicini di casa che abitano a Brooklyn. Dylan è bianco, Mingus è nero: la loro amicizia non è sempre Facile. Un racconto che si snoda dagli anni settanta ai novanta, all'interno della "Fortezza", un isolato abitato da una maggioranza di famiglie nere, dove serpeggia la paura del ritorno dei bianchi. La vita nell'America degli anni settanta è fatta di conflitti razziali e politici che si possono accendere anche a partire da scelte molto piccole: quali canzoni ascoltare e quali amici frequentare. Con gli anni novanta l'atmosfera si fa più distaccata, e le persone sono sempre più avvolte nell'indifferenza e nell'isolamento.
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Dettagli

2016
Tascabile
20 ottobre 2016
712 p., Brossura
9788845282959

Valutazioni e recensioni

4,28/5
Recensioni: 4/5
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Lorenzo G.
Recensioni: 4/5
Romanzo americano

Questo romanzo, in parte autobiografico, di quasi 600 pagine racconta l'America tra il 1970 e il 1990. Sicuramente originale nella trama, a tratti un po' pesante (specie nelle prime 80-100 pagine), il libro fa riflettere perché tocca vari temi: il razzismo, l'amicizia, la droga, la musica. Gli argomenti sono trattati con durezza ma proprio per questo senti il romanzo più "vero ".

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Peppe LaBels
Recensioni: 4/5

Interessante

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Keylalarossa
Recensioni: 4/5

Il racconto si sviluppa nel corso di un ventennio, dagli anni '70 ai '90 seguendo le vicende di due ragazzini, Dylan e Mingus, il primo bianco ebreo e il secondo di colore, che vivono a Brooklyn quartiere di neri e portoricani. In comune hanno poco e niente, ma diventano amici e le loro vite saranno difficili come quegli anni nell'America del punck, del crack e delle ribellioni, del soul e del rap. Lethem ti racconta una storia nuda e cruda, non filosofeggia, non fa della facile morale, ogni tanto senti un pugno allo stomaco, allora chiudi il libro e cominci a pensare. A cosa? All'essere umano e a quanto è difficile diventare uomini, senza i poteri dei supereroi.

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Voce della critica

Il bianco e il nero, le tag e l’uomo volante


Brooklyn è povera. Brooklyn è povera negli anni Settanta. È abitata da neri e portoricani, da bianchi alternativi in cerca di affitti più bassi e vicinati meno frenetici, da ragazzini che fanno vita di strada mentre agli incroci, seduti su cassette o bidoncini, i vecchi cantano nenie in lingue straniere; e qualcun altro, poco oltre il grande magazzino di colori, in lingua straniera si ammazza. C’è la droga, a Brooklyn, tanta cocaina e il crack in arrivo. Brooklyn negli anni Settanta è Dean Street e Gowanus e i Wyckoff Gardens; Manhattan è troppo lontana per scorgerne più che uno spicchio di grattacielo dalla finestra di casa. O dal tetto, quando si sale lassù per recuperare qualche spaldeen, le palline gommose e luride usate durante gli scatenati e oziosi giochi dei ragazzi in strada. Brooklyn è la strada. Brooklyn è la casa di Dylan e Mingus, giovani, complicati e irruenti protagonisti di una rincorsa ai valori profondi e commossi dell’amicizia che occupa quasi tutta la durata della storia; Brooklyn è l’immensa terra natia dello scrittore americano Jonathan Lethem, altisonante sineddoche di un’America ormai scassata ma pur sempre grandiosa che lui rappresenta e conosce con indubitabile padronanza. Brooklyn, prima e dopo il grande boom turistico e la gentrification, prima e dopo il personale successo di Lethem come scrittore cult della contemporaneità letteraria avantpop e pop in generale.

Dylan e Mingus fanno fatica a diventare amici: Dylan è l’unico ragazzino bianco in una scuola di neri, Mingus è uno dei neri più duri e rispettati della zona, che non sempre ha piacere di farsi vedere in giro con il ragazzino bianco della scuola, nonostante lo adori, e lo protegga, e lo rispetti come si fa solo con un fratello. A tenerli insieme è un mondo fatto di tag, brevi ma potentissimi nomi propri – nomi d’arte – scolpiti sui muri con scaltro e frettoloso uso del colore onnipotente, e di fantasia da fumetto segreto, da supereroe personificato. Insieme hanno infatti battezzato ogni angolo delle loro strade, da quelli così visibili da essere terreno di guerra a quelli tanto invisibili da poter essere raggiunti solo con dei super poteri. I super poteri di Areoman, l’uomo volante, il cui volo è garantito da un anello magico che i ragazzi hanno ereditato da un barbone, anche lui uomo di strada, caduto al suolo come Lucifero dopo una librata finita male. Areoman deve combattere il crimine nelle strade, deve stare dalla parte dei giusti e, contemporaneamente, nel suo costume fatto in casa, deve essere allenato a volare, deve sapere atterrare addirittura dal ponte di Brooklyn battuto dal vento gelido, deve superare le rivalità che inevitabilmente ha creato tra i due amici, deve conservare la sua anima in un anello-feticcio così tante volte nascosto tra le mani sudate e ansiose di Dylan che per poco non ha smesso di funzionare. Aeroman è un’amicizia quasi impossibile. Aeroman è il supereroe che cambierà super poteri quando Dylan e Mingus avranno cambiato identità, vita, età. I due ragazzini crescono, e si allontanano. Brooklyn si spacca, lacerata da se stessa, e affonda in Manhattan, nel Vermont, nel college, nella galera, fin nella California dalle mille luci magiche e fuggevoli. Non davvero, forse, non per sempre, di sicuro. Intanto gli altri personaggi – il cattivo Robert Woolfolk, l’ambiguo antagonista Arthur Lomb, i genitori Abraham, Rachel e Barret Rude Junior – inseguiranno i due protagonisti a ritmo di colpi di pistola, di cartoline misteriose, di strisce di coca, di musica.

La musica e la scrittura di Lethem sono un tutt’uno, infatti. È il ritmo che conta in questa storia, non per forza accelerato e rullante, anzi molto spesso gonfio, rigonfio, come una vera onda sonora ha da essere. Dal funky al punk, toccando indietro il blues e il jazz e avanti il rock psichedelico, intere frasi di canzoni, ritornelli e recensioni musicali arricchiscono uno stile di scrittura già di per sé sonoro, sentito, solido, ricco. Di certo domate da redini sempre vigili e attente, le frasi che Lethem sceglie per il suo romanzo – che tanto ha di autobiografico – sono lunghe, contengono ripetizioni e ridondanze, si rincorrono, riempiono la lettura di particolari, di segni e suoni, di slang e dialoghi che sanno di vero. Una colonna sonora cruda e abbondante per raccontare di un’America che ancora non sa bene come e dove si possano mescolare il bianco e il nero. Nonostante tale segreta e graffiata unione suggerisca un dolce calore a chi è in grado di coglierlo.

Recensione di Marta Ciccolari Micaldi 

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Conosci l'autore

Jonathan Lethem

1964, Brooklyn

Jonathan Lethem è figlio di un pittore e di una militante della sinistra radicale, cresciuto in una Brooklyn divisa fra italiani, neri ed ebrei, tra classici del cinema di fantascienza, cartoni animati della Warner Bros., la grande letteratura europea e la cultura hippy. È cresciuto leggendo Calvino e la Highsmith, Dostoevskij e Ray Bradbury, e se fino all’adolescenza da grande voleva fare il pittore, a vent’anni si è ritrovato sulla West Coast a lavorare fra gli scaffali di una libreria – e alle prime versioni dei suoi romanzi.La lunga parentesi californiana dura più di dieci anni, che comprendono un breve matrimonio (con la scrittrice Shelley Jackson) e la pubblicazione dei suoi primi romanzi: nel 1994 Gun with Occasional Music (Concerto per...

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