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Anno edizione: 2018
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Interessante e denso di nozioni che non tutti conoscono. Un libro che ho letto per l'università, ma che mi è rimasto nel cuore.
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"Come fu possibile per questi uomini che vivevano in società costruite sulla schiavitù, sulla subordinazione e su un'acquiescenza apparentemente naturale, giungere a immaginare uomini niente affatto uguali a loro, e in alcuni casi persino le donne, come uguali? Come fu possibile che l'uguaglianza dei diritti diventasse una verità 'di per sé evidente' in luoghi tanto improbabili?". Da questi interrogativi, intorno al paradosso dei diritti umani ("verità di per sé evidenti", come le definì Thomas Jefferson nella Dichiarazione d'indipendenza americana, che però hanno bisogno di essere dichiarate per essere riconosciute come tali), muove la ricerca di Lynn Hunt, docente di storia dell'Europa moderna all'Università della California.
La storia della "invenzione" dei diritti umani ha un epicentro nell'ultimo quarto del Settecento, quando di là e di qua dell'Atlantico l'idea dei diritti umani permea di sé lo svolgersi delle due più importanti e influenti rivoluzioni dell'età moderna, quella delle colonie inglesi d'America, che si fanno indipendenti, e quella della borghesia francese, che travolge l'Ancien regime. Era il secolo dei Lumi, siamo abituati a risponderci: la fede nella ragione e nell'individualità umana trovò espressione (anche) nella convinzione che ciascun essere umano fosse depositario di quelle qualità morali e intellettuali che ne facevano un soggetto di diritti così come un attore consapevole della propria storia individuale. Lynn Hunt, però, ci chiede (e si chiede) di più: dal mondo delle idee vuole scendere più in profondità, nell'universo dei sentimenti morali, per capire quali fossero state le condizioni del successo dell'idea dei diritti umani. E qui entra in campo "la forza dell'empatia".
"L'empatia si basa sul riconoscimento che gli altri sentono e pensano come noi, che la nostra sensibilità interiore è fondamentalmente simile. Per essere autonoma, una persona deve essere legittimamente separata e protetta nella sua separazione, ma perché i diritti accompagnino tale separazione fisica l'individualità di una persona deve essere compresa a un livello più emotivo. I diritti umani dipendono sia dal possesso di sé e del proprio corpo, sia dal riconoscimento che tutte le altre persone sono altrettanto padrone di se stesse". Senza la capacità empatica di "sentire" il dolore (la gioia e ogni altro stato d'animo) degli altri, senza un'educazione sentimentale alla condivisione con l'altro da sé, la "virtù sovrana" dell'uguaglianza "non avrebbe potuto assumere un significato profondo, in particolare non avrebbe avuto alcuna conseguenza politica", come quelle dei nuovi regimi fondati sulle dichiarazioni dei diritti umani.
Secondo Hunt, questa educazione sentimentale ebbe luogo a partire dalla metà del XVIII secolo, anche attraverso la diffusione e il successo di un genere letterario cui dedica il primo capitolo del libro, centrale nelle sue argomentazioni. Il romanzo epistolare e le sue eroine (Giulia, la "nuova Eloisa" di Jean Jacques Rousseau, Pamela e Clarissa di Samuel Richardson, per esempio), attraverso la loro capacità di suscitare l'identificazione del/la lettore/rice nella protagonista che parla in prima persona, con il mero "sostegno editoriale" dell'autore del romanzo "diffusero l'idea che tutte le persone sono fondamentalmente simili in ragione dei loro sentimenti intimi". La società francese prerivoluzionaria, ma, più in generale, le società di cultura europea del tempo avrebbero dunque coltivato una percezione dell'individualità umana, della sua dignità e della uguale intangibilità, che resero naturale l'approdo alle dichiarazioni dei diritti settecentesche.
Quasi un caso di studio, nel lavoro di Hunt, è la storia dell'abolizione della tortura. Dal Trattato sulla tolleranza scritto da Voltaire in occasione della morte di Jean Calas (torturato a morte perché si rifiutava di fare i nomi dei complici nell'omicidio del figlio che, secondo l'accusa, lui protestante avrebbe ucciso per impedirgli di convertirsi al cattolicesimo) ai cahiers des doléances preparati per gli Stati generali dell'89, passando per la pubblicazione e l'eccezionale diffusione dell'opera di Cesare Beccaria, l'intangibilità del corpo dell'accusato (e finanche del condannato) è un metro del mutamento di sensibilità della società del tempo: l'empatia, secondo Hunt, corrodeva anche le pratiche disciplinari più tenaci.
Ma non è fatta tutta di rose e fiori la storia dei diritti umani e dell'epoca che si apre con le loro dichiarazioni. Lo sa bene Hunt e vi dedica la parte finale del suo lavoro. Non solo da quella fine del Settecento in poi non sono mancate (anzi: si sono ripetute in forme spesso efferate) violazioni dei sacri principi affermati nelle dichiarazioni dei diritti, ma la loro stessa affermazione normativa è stata il frutto di incessanti contese e di faticose conquiste: dei credenti nelle confessioni minoritarie, dei neri e degli schiavi, della metà del genere umano esclusa dall'originario patto tra fratelli.
Più di una volta la forza dell'empatia è sembrata fermarsi sulla soglia di rocciose identità collettive e cadere nel gioco delle distanze. Da una parte i nazionalismi chiudono il mondo dei diritti nell'appartenenza comunitaria, fino alle teorie razziste della subordinazione o dello sterminio dell'altro. D'altra parte, l'empatia si infrange sulla prossimità della violenza e della violazione dei diritti, ricordandoci che il loro rispetto è affidato, prima di tutto, ai mutevoli sentimenti e alle fragili mani di comuni esseri umani. "Il concetto di diritti umani si portò dietro una lunga scia di gemelli malvagi, scrive Hunt, ma sono il nostro unico, comune baluardo contro questi mali".
Baluardo tanto più efficace, quanto più riconosceremo l'originaria ambivalenza dell'idea dei diritti, che la sola forza dell'empatia potrebbe altrimenti offuscare. I diritti umani, infatti, non nascono "per gli altri", ma "per se stessi": l'appello ai diritti che si ripete incessantemente in luoghi e forme diverse dagli albori dell'età moderna è pronunciato da individui raccolti in gruppi sociali che sono o vogliono farsi riconoscere come comunità politiche o loro parti costitutive. Non si può parlare dell'idea dei diritti dimenticando la loro origine contrattualista, e quindi, in fondo, particolare, finalizzata a rivendicare diritti e soggettività in un determinato contesto storico e politico. E non si può, d'altra parte, dimenticare che, proprio a partire dalle dichiarazioni settecentesche, l'appello ai diritti si è nutrito di argomenti universalisti, necessari a giustificare i diritti dei coloni americani d'Inghilterra così come le rivendicazioni del Terzo Stato nell'Assemblea nazionale francese.
Il principio universalista aveva messo in moto un meccanismo inarrestabile di allargamento dei titolari dei diritti. Come scriveva John Adams, citato da Hunt, a proposito dei requisiti per l'elettorato passivo nel Massachusetts del 1776, "è una storia che non avrà mai fine. Arriveranno nuove rivendicazioni. Le donne vorranno votare. I ragazzi tra dodici e ventun'anni penseranno che i loro diritti non siano sufficientemente tutelati, e ogni uomo senza un quattrino esigerà pari voce di chiunque altro in tutti gli affari dello Stato". E così è stato, in un rimando continuo tra universalismo e rivendicazione dei diritti, tra empatia per le sofferenze degli altri e soggettività politica propria. Fuori da questa ambivalenza, l'idea dei diritti rischia l'impotenza o di farsi strumento di nuove retoriche identitarie, tradendo, nell'uno come nell'altro caso, le aspettative in essa riposte. Stefano Anastasia
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