Il volume è una raccolta di saggi che ha come fulcro il rapporto travagliato tra pittura e fotografia nei primi decenni dell'era fotografica, fondamentalmente dagli anni quaranta dell'Ottocento alla fine di quel secolo: lo status della fotografia più o meno negato, sempre sofferto, sia dagli artisti disorientati dall'apparente perfezione della macchina, convinti dell'inutilità del virtuosismo umano, sia da parte dei fotografi considerati dei meri imitatori, quelli che vengono dopo, quando va bene artisti di serie B. Ma, come dimostra questo testo accurato ed erudito, gli andirivieni, i rimandi e le rincorse sono ben più complessi. In fin dei conti ciò che emerge di interessante per la storia delle arti visive in generale è come l'irruzione sulla scena del linguaggio fotografico abbia rimescolato le carte e soprattutto le gerarchie tra i generi individuabili all'epoca in quattro ambiti principali: la natura morta, il paesaggio, il ritratto e la pittura storica, investendo di tensioni nuove e diverse sia la pittura sia la fotografia. Se il volume è dedicato soprattutto alla scena italiana, una Roma capitale della cultura della prima metà dell'Ottocento, autori italiani quali Federico Faruffini, Domenico Morelli, Francesco Paolo Michetti, Giulio Aristide Sartori, fino a Giuseppe Pellizza da Volpedo, colto tra realismo fotografico e Scapigliatura lombarda negli ultimi anni del secolo, i vari capitoli non trascurano il tema complesso del paesaggio, l'evoluzione dei generi, il soft focus e il simbolismo nel lavoro di Julia Margaret Cameron e la prefigurazione del postmoderno nell'opera fotografica di Wilhelm von Gloeden. Se alcuni artisti rimangono modelli per i fotografi ma anche per i pittori della seconda metà dell'Ottocento, come ad esempio il grande paesaggista Corot che lavorava en plein air, in grado di rilevare effetti percettivi di luce ben prima degli impressionisti, ancora più interessante è scoprire come la visione fotografica ha alterato e modificato la sensibilità di un pittore a tutto tondo come Pellizza da Volpedo, passato attraverso il divisionismo e il simbolismo. Nelle grandi tele dell'artista lombardo è la visione fotografica a fare da collante, a strutturare e a tenere insieme le composizioni attraverso il taglio dell'inquadratura e la casualità e l'immediatezza del gesto dei soggetti ritratti, studiati con l'ausilio della fotografia. Più difficile è condividere alcune posizioni teoriche dell'autrice come quella che vede un'evoluzione del linguaggio artistico e fotografico dal concetto di "opera aperta" di Umberto Eco (il testo è del 1962), nato dall'arte programmata e da un ragionamento popperiano sul futuro "aperto" dell'universo, e il mondo essenzialmente chiuso del citazionismo astorico della postmodernità. Se è possibile tracciare nell'opera di Wilhelm von Gloeden un nesso con il postmoderno in quanto il suo lavoro rappresenta una sorta di eterno ritorno, l'utilizzo carico di sensualità dell'atemporalità della mitologia antica per affermare una propria identità omosessuale e la contemporaneità di una tale visione ripropongono e riaprono, a mio parere, la questione dei generi in pittura come anche nella fotografia: ciò che si pensava di aver cacciato dalla porta rientra dalla finestra, neanche tanto trasformato. L'utilizzo pompier dell'antichità, carico di ammiccamenti erotici e classisti con i suoi aspetti appariscenti ed enfatici, è sempre con noi, dalle ninfe neoclassiche da giardino alla sensualità "mediterranea" della moda Dolce Gabbana di oggi. Anna Detheridge
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