Presentando, nel 1973, la silloge di racconti «Il mare colore del vino», Leonardo Sciascia ne rivendicava, oltre che la necessità, la profonda coesione interna. Una coesione, possiamo oggi precisare, ottenuta a prezzo di esclusioni molto più drastiche di quanto Sciascia non lasciasse trapelare («Questi racconti sono stati scritti – con altri, pochi, che non mi è parso valesse la pena di raccogliere e riproporre – tra il 1959 e il 1972»). Basterà leggere in questo volume, tra i numerosi racconti lasciati allora cadere, la storia di Calcedonio Fiumara, che, trasformatosi da zolfataro in ricco e rapace possidente, vive solo come un cane, senz'altro amore se non quello per la sua pura e intoccabile ricchezza: e finirà per lasciarla, anziché ai detestati nipoti, a un manicomio, dove nessuno potrà trarne godimento o sollievo. O «Una commedia siciliana», che dietro una vicenda in apparenza rocambolesca e a lieto fine lascia trasparire la faccia terribile e cupa di un paese «circonfuso di limoni e di mare», e i due modi d'essere della Sicilia: «uno enfatico e mistificatorio – dialogo, luce, festa – e l'altro chiuso e segreto, corroso da acre violenza e disperazione». Il lettore troverà qui, inoltre, un piccolo nucleo di mirabili prose e «cronachette» (sappiamo del resto quanto sia intrisa di narratività anche la produzione saggistica di Sciascia): come «I tedeschi in Sicilia», dove è ricostruito l'eccidio, feroce e immotivato, che nell'agosto del 1943 un reparto tedesco in ritirata compì a Castiglione di Sicilia: eccidio rimasto impunito, giacché in Italia «quel che accade in Sicilia è cosa d'altro pianeta». Per Sciascia, non dimentichiamolo, sono le microstorie a conferire senso e significato alla storia: senza contare che «il gusto della supposizione e il ridestarsi dello spirito possono già bastare a chi, come me, scopre nella storia veri e propri romanzi polizieschi». )
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