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L’impressione è di un testo fiammeggiante, talvolta urlato, però evocante una visione poetica, molto affettiva e solidale. Si discorre di vite spezzate, di povertà, di paura esistenziale, ma anche di coraggio e di libertà. Parlare di lavoro (inteso “senza aggettivi”) diventa un pretesto per allargare la riflessione superando categorie e le distinzioni (per esempio tra negotium/otium) collegandosi ai diritti che diventano la cartina di tornasole della concreta socialità di una nuova soggettività. Così i riferimenti socio-economici e le categorie, le classificazioni, etc. si metamorfosano, si sfrangiano (ad es. outsourcing; delocalizzazione)nello spostamento dal lavoro subordinato a quello autonomo, sotto varie forme e feticci (legali, illegali, “grigi”); nell’intrappolamento tempo/spazio del precariato e di chi non potrà contare sul diritto ad una pensione dignitosa; nell’appropriazione lato sensu, del capitale cognitivo espropriato al lavoratore; nel conflitto stabilità/precarietà col significato simbolico di devozione, sottomissione, ma pure del riconoscimento di diversi diritti e poteri; nella stabilità lavorativa come normalità o passepartout di diritti, mentre l’anormale va “soccorso” (sopra certe soglie caritatevoli) dallo Stato non più sociale ma assistenziale; nelle fallaci dualità: stabilità/instabilità: internità/esternità; autonomia/subordinazione; locatio operis/locatio operarum. Allora di che indipendenza e libertà si parla? Per gli A. l’indipendenza si collega alla libertà e alla necessità intesa come “autonomia” personale nel mondo, cioè come “eccedenza” e “singolarità”: è cioè creativa, pluridirezionale, fuori dagli schemi e dalle gabbie categoriali. Eccoci ad ipotizzare nuove modalità di governance con spazi e processi inediti, comunque “aperti” per una dignitosa sopravvivenza, fuori dal bisogno. Ma lo jus non basta di fronte allo scenario apocalittico (l'europeo, destinato al tramonto) rimane la solidarietà/coesione come imperativo sociale
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