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Il più misconosciuto e il meno celebrato dei romanzi di Herman Melville ritorna in libreria dopo una quarantina d’anni, in una nuova pregevole traduzione. Si tratta di White Jacket, tradotto da Livio Crescenzi per Mattioli 1885. Una buona occasione per ricordare anche l’uscita del tascabile einaudiano di Moby-Dick nella ri-traduzione di Ottavio Fatica, a poca distanza dalla princeps (2015).
Chi, tra i lettori di Melville, non ha sentito parlare di White Jacket, e chi, parlandone, non ha detto che si tratta di una specie di grande libro di marina? Oggi pare evidente che non possa condividere la gloria di Moby-Dick, o di Billy Budd; eppure è certo che si tratta di un romanzo che rappresenta l’epitome dei topoi della letteratura marinaresca, come ci ricorda lo stesso Crescenzi nella sua introduzione. La colpa potrebbe essere dello stesso Melville, che accarezza il sogno di scrivere un libro tagliato sui più semplici sentimenti dell’uomo di mare, con un vivido gusto per la descrizione di scene di vita marinaresca o il ritratto di originali sailormen, e la denuncia in chiave di riflessione saggistica dei soprusi e delle angherie cui deve sottostare chi sceglie la carriera navale nella marina americana. Efficacissimo in questo suo ostinato muoversi su diversi piani narrativi, Melville ha tirato fuori un romanzo che senza dubbio si presta a numerosi riavvicinamenti intertestuali con il capolavoro della maturità, Moby-Dick; ma a uno scrittore come lui non importava che i suoi lavori fossero misurati con una sola grandezza: a Melville piuttosto importava di raccontare una storia personale e testimoniare gli abusi navali e la dura vita a bordo di una nave da guerra.
Quello che emerge da subito è soprattutto il conflitto tra marinai e ufficiali: è un conflitto antico che nella marina inglese, come insegna il Norbert Elias di The Genesis of the Naval Profession (1950), rifletteva quello degli strati sociali: da un lato i gentlemen, i membri dell’aristocrazia e della piccola nobiltà terriera, e dall’altro i mercanti e gli artigiani. Ai tempi di Melville, la carriera navale aveva ormai assunto una forma precisa; eppure le rivalità tra ufficiali, «signori del mare», e marinai, «la gente di bordo», perdurano antiche, e non sono più solo sociali ma anche le risultanze di divergenti abilità professionali. Ma, tiene a precisare Melville, sono soprattutto gli ufficiali che assumono nei confronti dei marinai atteggiamenti di superiorità.
E così, mentre il grande tema della vita del marinaio si muove su uno sfondo meditativo e favolistico, giocato sul registro dell’ironia e dell’understatement (si pensi al capitolo della “grande strage delle barbe”), il tema dell’antagonismo ufficiali-marinai si svolge in una chiave di riflessione e di denuncia, con tentazioni simboliche, bibliche in particolare (cui l’autore non sa resistere). È soprattutto la fustigazione che più di ogni altra cosa indigna Melville, che ne denuncia l’ingiustizia e l’efferatezza avvalendosi di appigli di tipo giuridico (capp. 33-36). Non a caso, come ricorda Crescenzi, il clamore di questa denuncia fa di White Jacket un tassello determinante per l’abolizione definitiva della fustigazione nella Marina da guerra degli Stati Uniti. A livello letterario, è ancor più significativo che l’elenco dei reati compiuti sulla nave che comportano la pena di morte sia costruito come la parodia dell’evangelico Discorso della Montagna (Matteo 5, 1-12). La litania delle beatitudini si trasforma in una sequela di condanne inappellabili che promettono non già la felicità ma l’impiccagione (cap. 70).
Contrasti e insieme potenzialità visive e narrative che esprimono ancora una volta il dissidio e l’inquietudine della vita di mare; quel dissidio e quella devastazione che, sulla scorta di questo grande libro, ha lasciato presenza di duraturo tema nei successivi romanzi marinareschi, come Il lupo dei mari di Jack London (1904), Primo comando di Patrick O’Brian (1970) o Riti di passaggio di William Golding (1980).
Recensione di Cristiano Spilla.
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