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Anno edizione: 2020
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Questi saggi ci parlano di Pindaro e di Verne, di Lucano e di Baudelaire, di Borges e di Pessoa, ma anche del gioco degli scacchi e della stupidità, dei viaggiatori antichi e dei letterati minacciati dall’inesistenza. Con piccoli, densi blocchi di frasi, Pontiggia ci immette ogni volta su un nuovo sentiero, ci svela un paesaggio inconsueto o ci obbliga a guardare in modo diverso un paesaggio che credevamo di conoscere. E insieme all’immediatezza del gesto con cui ci abbandona al centro dei suoi temi, avvertiamo in lui una sapiente discrezione, la continua consapevolezza di una distanza. La furia di rendere tutto vicino nasconde l’intenzione di rendere tutto banale. Con Pontiggia riscopriamo la felicità di sfuggire a questo equivoco: i classici tornano a parlarci nell’intimo proprio perché recuperano la loro lontananza; i moderni riacquistano – come qui si dice a proposito di Solmi – «un nitore misterioso, una evidenza sfuggente, una mobilità inafferrabile».
Ad apertura di pagina, si capisce subito che questi sono i saggi di uno scrittore. Pontiggia non vuole mai offrirci un tutto ‘esaustivo’, preferisce qualche scheggia essenziale. Sa che tre aggettivi non sono necessariamente più efficaci dell’assenza di ogni aggettivo. Come nei suoi romanzi, alterna la trafittura gnomica al rapido passo narrativo. La sua ambizione ultima è quella di dare alla prosa critica quella «potenzialità enigmatica di un linguaggio chiaro» che incontriamo tanto spesso nella grande letteratura. Ogni volta che isola un tema nel suo ricchissimo ventaglio, Pontiggia molla gli ormeggi per un viaggio nell’ignoto. E il giardino delle Esperidi è, da tempi remoti, uno dei nomi di quell’ignoto «al di là dell’Oceano famoso». A terra rimangono quei letterati che continuano a interrogarsi «sulle misteriose ragioni per le quali Rimbaud non è rimasto con loro a Parigi».
Questa è la prima raccolta, meditata e organica, dei saggi di Pontiggia.
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