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Anno edizione: 2012
Anno edizione: 2021
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Per qualche legge morale conficcata come un chiodo storto in chissà quale parete della vita, per qualche incognita per fortuna sfuggita di mano ai matematici onniscienti, per qualche prezioso ingrediente (tuttora nascosto) nel folle impasto che genera un poeta, per tutto questo e per altro che qualcuno o nessuno un giorno svelerà con abile e scavata competenza, si arriva a fare degli incontri che sono assai più che avventi sensibili. Simili a un "cadere senza fine attraverso tutti i tetti a vetri dell'io", sappiamo e sentiamo che in quella discesa qualcosa stiamo amando, capendo, e che davanti a greggi spente e "prive di valore come un assegno scoperto" si stagliano anime gigantesche in grado da sole di fronteggiare a petto nudo ogni stoccata del nonsenso. Subendola, assumendone ferite e piaghe, ma per contrasto lasciandone fiorire tali rami di forza ricettiva, di impegno e lotta senza uguali nel serraglio del vuoto, dell'indistinto triviale, da farne luci uniche contro caratteri già graffiati dall'aborto. Si può essere prigionieri di se stessi come narcisi uccelli impagliati in gabbie esclusive, ma si anche esserlo come bicchieri scheggiati nei quali il liquore migliore dorme come in nessuna culla, e istiga e sprona il poeta scandagliare la vita con la sola potenza di un verso riuscito. Raccolta bellissima, sacca di tempo e cifra letteraria stupenda lungo gli argini inquieti del soffrire, calda impresa uguale a "denti da cavallo sui quali misurare gli anni, quante donne hai avuto e con quanta cautela hai morso per paura di perderne anche una". Onde calme sotto le quali chi sente avverte il brusio di una convulsione, sguardi persi in vuote espressività contro fattezze che già sanno cosa vivono, laconica canzone ripetuta e stanca a fronte di un gorgheggio che pochi avvicineranno. La poesia non insegna che a proteggersi pur sotto portici tarlati; e tuttavia in quelle gocce che filtrano e bagnano il viso c'è tutta la verità e il conforto di voci solo nostre.
Otto storie che raccontano sfumature diverse del dolore: dalla solitudine al tradimento, dalle incomprensioni ai muri di silenzio. Un dolore che è realmente appartenuto all’autore e che emerge dirompente attraverso le sue parole senza far mai dubitare il lettore della sua veridicità; un dolore che lo porterà al suicidio a soli 31 anni. Sono racconti essenziali quelli di Dagerman, narrati con una prosa altrettanto essenziale e priva di sentimentalismi col tentativo di “rimettere in ordine un mondo frantumato, di rapporti frantumati, di rapporti amorosi irrimediabilmente lesi”, partendo dallo sguardo acuto di un “por liddel boy” per finire sul cuore stanco e disilluso di un “old man”. Andrea Gibellini, nell’introduzione del libro, scrive: ~ Dagerman è uno scrittore senza difese: neanche la prepotente condizione narcisistica dello scrivere lo salva dalla disperazione. Spremere la bellezza dalla disperazione diventa il suo ultimo e irrinunciabile compito. ~ A fine lettura, posso dire che questo compito è riuscito egregiamente.
«La stanchezza va molto bene, la stanchezza va sempre bene, in particolare quando ci si esercita nell’amara arte di essere prigionieri di se stessi. Anche una grande calma e una certa capacità di mantenersi freddi vanno molto bene, perché l’uomo deve avere i nervi molto saldi per potersi sopportare.» Ho scoperto Stig Dagerman ed è stato qualcosa di folgorante. «I giochi della notte» è una raccolta di racconti, ma si legge come un romanzo. Il collante che li amalgama e li tiene insieme è la perdita dell’innocenza, è la difesa verso un mondo troppo brutale per la sensibilità di alcuni individui, è il rifugio nell’interiorità e nel sogno. I racconti sono tragicamente veri, incredibilmente dolorosi, vibranti e inesorabili come note lunghe e sole. Eppure non suscitano una sofferenza fine a se stessa, semmai una consolante empatia. I giochi della notte sono gli esercizi di chi si ostina a difendersi contro un mondo invadente, corrotto e senza bellezza. L’ultimo racconto, credo, non lo dimenticherò mai.
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