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Fin dagli inizi della storia del pensiero occidentale la giustizia risulta intrecciata alla politica. Non si può infatti pensare di fondare o rifondare una comunità che esprima una convivenza duratura e pacifica se non si attua una qualche forma di giustizia. E questo perché agli albori della filosofia politica occidentale vi è Platone, colui che stabilì che fondamento dell'agire politico è la conoscenza dell'idea del bene. Aristotele condividerà e svilupperà l'idea platonica che la giustizia sia una virtù, individuale ma bisognosa della comunità umana per realizzarsi. Aristotelica la distinzione tra giustizia commutativa e distributiva, diventata il punto di partenza delle riflessioni più diverse, e anche confliggenti, che sul tema sono state prodotte nei secoli successivi, sino ai nostri tempi. Lo stoicismo, Giovanni di Salisbury e Tommaso d'Aquino hanno sviluppato gli spunti aristotelici sul concetto di equità e la sua relazione con la legge, per sua natura universale, e il caso concreto. Ma la svolta sta in Platone che, contro i sofisti, il loro pessimismo antropologico e il loro realismo utilitaristico, rifonda un'idea di politica come scienza del bene della città. Una svolta che non risolve, perché l'antica idea di Trasimaco che la giustizia sia l'utile del più forte ha troppa capacità persuasiva per essere confutata una volta per tutte. Dalla concezione realistica si può trarre un'idea della giustizia come convenzione che nasce dalla paura dei più di non essere abbastanza forti da prevalere, e Hobbes giustifica allora lo stato assoluto. Una svolta indubbia, però, che ha consentito a una tradizione di pensiero, che giunge sino a Rawls, di argomentare un'idea di società possibile solo e soltanto se fondata sulla reciprocità, unico vero antidoto al principio di utilità. Ma, per essere efficace, questa tradizione non può fare a meno di appellarsi alla virtù.
Danilo Breschi
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