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Adoro questa lettrice per le atmosfere un po' da Buzzati e un po' gotiche. Bellissimi anche questi racconti, che perdono lievemente in brillantezza nei finali, ma che per stil e idee sono assolutamente fantastici.
Sulla scia di alcuni ottimi romanzi ('Una luce nerissima' in primis) ho cercato questa raccolta di racconti. Si tratta di un esordio anomalo per la scena letteraria italiana. SI potrebbe parlare di fiabe 'nere', dove l'aggettivo rimarca non esibizioni orrorifiche ma una malinconica visione esistenziale. I protagonisti aspirano a una passione idealizzata e totalizzante che non trova riscontro nell'imperfezione del reale e del quotidiano. Usano l'arte come linguaggio per inseguire i loro desideri, ma finiscono immancabilmente delusi e si chiudono in una prigione interiore, quando non si distruggono per consunzione. Lo spazio dei racconti è indefinito, come pure il tempo, anche se si può ipotizzare uno scenario ottocentesco. La lingua già qui è 'alta' ed elegante. Certo, la si può dire anche 'leccata', optando per un giudizio di sterile esercizio intellettuale. Da parte mia, continuo a trarre piacere dalla lettura di questa scrittrice.
Confermo assolutamente il giudizio di Fabiola,un libro ricco di simbologie profonde,che potrebbero sfuggire a una prima lettura,proprio in quanto celate in storie "semplici",fiabesche,direi... Una grabde narratrice !!! Peccato che le sue ultime opere non siano piu' dello stesso livello.
Recensioni
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(recensione pubblicata per l'edizione del 1988)
recensione di Bompiani, G., L'Indice 1988, n. 6
La solitudine assedia le figure dei racconti di Paola Capriolo. È una solitudine guadagnata in partenza, sebbene appaia sempre come la punizione di un lungo inseguimento. In ognuno dei racconti, infatti, un personaggio cerca di mettersi in rapporto con una figura separata da una distanza invalicabile: nel primo, un'attrice insegue un abitante dello specchio, nel secondo uno scultore cerca di irretire il proprio modello che non rivela di sé che qualche lembo di corpo da una finestra; nel terzo la giovane moglie del comandante di una fortezza si mette in comunicazione musicale con il prigioniero che vi è rinchiuso e nel quarto, lo stesso prigioniero (una sorta di Gilles de Rais) educa alla musica la giovane sconosciuta, in un duetto piano-violino.
Giustamente la quarta di copertina evoca Narciso e il demone della mimesi: infatti, entrare in rapporto, per tutte queste figure, significa "somigliare".
Questi personaggi sembrano davvero quattro Narcisi, i quali cerchino di ricomporre la propria somiglianza nell'acqua, e non arrivino alla fine, e con profonda delusione, che alla propria faccia, incontemplabile. Perché questa ricerca non è stata vana: ciascuno di loro è diventato nel frattempo esattamente quel che voleva essere, ed è qui, nella loro protetta infelicità, che ritroviamo a carattere profondo di Narciso, la malinconia.
Narciso rifugge dalla ninfa Eco (una Narcisa acustica e silvana) per assaporare la disincarnazione della propria bellezza, ma incapace di godete carnalmente dell'immagine, muore di tristezza sulla riva del fiume. Allo stesso modo, nel racconti di Paola Capriolo, c'è una singolare mancanza di carnalità. E non solo nelle immagini, ma nella stessa lingua usata dall'autrice. È una lingua deliberatamente, leggermente desueta, la cosiddetta "lingua poetica", ispirata alla convenzione ottocentesca della disperata divisione fra arte e vita. È una lingua che si mette tutta dalla parte dell'arte. Come vi si mettono i personaggi, che all'arte sacrificano non solo la vita, la ragione, la fedeltà, l'amore reale, ma anche la coscienza dei propri delitti; (nell'ultimo racconto, l'irriducibile prigioniero, che versava sulle sbarre un'ombra gigantesca e maligna, consente di diventare un innocuo scheletro mingherlino in nome della purezza musicale). Ma ciò a cui propriamente sacrificano, più che l'arte, è il suo segreto modello. Ed è ben chiaro che questo modello non si trova mai fra i piedi, o a portata di mano, o a vista d'occhio; ma è sempre fuori del quotidiano, fuori del reale e del possibile. È irraggiungibile, non al mondo dell'idea, quanto al mondo della chimera. Perciò non rende saggi, ma malinconici.
Ho cercato di districare qualche linea portante nei racconti di Paola Capriolo, perché, data la sua giovane maestria, m'incuriosisce immaginare in quale direzione si muoverà, nella preziosa rete di vicoli ciechi che ha composto. Già nei due ultimi racconti, specialmente nell'ultimo, una direzione sembra profilarsi non tanto verso il reale, che è apparente, ma verso una coscienza più contorta della tentazione che si nasconde dietro la tentazione della Chimera.
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