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Fitzgerald pubblicò questo libro nel 1925. L'autore è riuscito, con maestria, a trasmettere tutta l'atmosfera di quegli anni "ruggenti" che, per certi versi, mi hanno fatto ricordare un po' l'atmosfera che respiravamo nei nostri anni '80, in cui l'edonismo e il ripiegamento nella sfera del privato ci spingevano sempre più verso un cieco egoismo e un materialismo consumistico e libertino. A mio avviso, i personaggi chiave sono Tom Buchanan e Jay Gatsby. Il primo, è un ricco borghese apparentemente "per bene", ma razzista, violento e adultero, quindi falso e assai ipocrita; il secondo, è un delinquente il cui sincero amore per Daisy trasformerà in una persona migliore, tanto da farcelo apparire come uno sfortunato idealista e un povero illuso all'inseguimento del suo "Graal". Il messaggio dell'autore è chiaro: le apparenze ingannano, spesso dietro una facciata di perbenismo e buona nomea, si cela un individuo spregevole; al contrario, un "contrabbandiere" può rivelarsi una persona capace di nobili sentimenti e grandi slanci di altruismo. Sono molti i temi dell'opera: il proibizionismo; l'incoscienza di quegli anni euforici, ricchi di illusioni, denaro facile e sete di potere; e poi tanti elementi autobiografici sparsi qua e là. Ma, secondo me, ci sono altri due tempi fondamentali. Il primo, è quello del rimpianto: certi treni passano soltanto una volta; e poi c'è quello che più mi ha colpito: l'irriconoscenza del genere umano. Quest'ultimo si manifesterà in tutta la sua terribile realtà nel finale del libro, ma non voglio rivelare di più. Basti qui dire che quando ho chiuso il libro, dopo aver letto l'ultima pagina, mi è venuta in mente una frase attribuita ad Enrico De Nicola: "La gratitudine è il sentimento della vigilia".
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