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L’Inghilterra di Coleridge e Wordsworth, di Byron, di Shelley, di Keats: questa terra mirabile della letteratura, piena di risonanze, ibridazioni e intrecci, questo variegato paesaggio della sensibilità si aprì al giovane Emilio Cecchi all’inizio della sua lunga vita letteraria: fu un incontro decisivo, da cui nacque questo libro, che molti ritengono il suo più bello. «Formatami la visione complessiva di uno scrittore, stendere subito e di colpo questa visione: ciò darà l’intimità al lavoro: farà il suo colore tutto particolare, poeticamente critico». Questo era il «metodo» che Cecchi si era scelto, come troviamo annotato in un suo taccuino del 1912. E si può dire che gli restò fedele.
Essere eminentemente mimetico, Cecchi operò sempre per appropriazione violenta verso gli autori che amava: la critica era, in quei casi, una forma di oscura simbiosi. E i «grandi romantici inglesi» gli servirono a fissare in immagine il suo lato ‘abissale’, quel lato di tenebra romantica così insolentemente esotico all’interno della letteratura italiana che Cecchi stesso tenterà a volte, e invano, di celarlo dietro il nitore toscano.
Quest’opera accompagnò Cecchi per tutta la sua vita di scrittore: pubblicata nel 1915 col titolo Storia della letteratura inglese del secolo XIX, fu ripubblicata dall’autore nel 1961 con il titolo attuale, rivista e accresciuta. In essa troviamo in certo modo la condensazione di tutto Cecchi: da una parte il primo orchestrarsi, carico di cromatismo, di una prosa magistrale; dall’altra l’imponente sperpero di intuizioni critiche acutissime, magari accennate per scorcio in poche righe, come accade in quei libri che hanno il principale difetto di essere troppo ricchi.
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