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Nel ’39 Huizinga si dilunga oltremisura nella casistica delle categorie del "vero" giocatore, credendo ancora che la corroborazione d’una tesi ne accresca la veridicità. Tuttavia ammette che esiste una casistica pure delle categorie di gioco, "un codice accuratamente definito di regole […], in un sistema rigido, con imperiosa validità, ma con infinite possibilità di variazione" (p. 158). Affermando ciò, egli non resta così indietro rispetto alla critica mossagli da Eco nel saggio introduttivo del ’73, quella d’aver confinato l’analisi al gioco come "play" e non come "game": "la cultura è gioco nel senso che le sue strutture […] costituiscono una matrice combinatoria autosufficiente che obbedisce a regole" (p. XVII); "è chiaro che stiamo chiedendo a Huizinga qualcosa che […] non pensava di darci e lo stiamo rileggendo dopo aver letto i testi della teoria dei giochi" (p. XVIII). In realtà Eco non si mostra più avanti né di Huizinga né degli studiosi della "Games Theory". Da tutti costoro il gioco viene troppo spesso inteso unicamente come conflitto, gara agonistica, rivalità, lotta, competizione, vittoria, caccia, polemica, sacrificio, sforzo. Invece solo con l’eliminazione di questi aspetti potrebbe sussistere l’effettivo gioco ludico, vale a dire un gioco a somma illimitatamente positiva. Eppure a tutt’oggi persino il latino "ludere" rinvia ai ludi romani "col loro carattere cruento, superstizioso e illiberale" (p. 87): giochi "falsi" (pp. XXV e 240), i quali celano un "ludere" che è ancora un "al-ludere", "col-ludere", "e-ludere", "il-ludere" e "de-ludere" (p. 44; cfr. pure Alessandro Dal Lago, Pier Aldo Rovatti, "Per gioco. Piccolo manuale dell’esperienza ludica", 1993, p. 142), "composti […che] tendono tutti al senso dell’irreale, dell’ingannevole" (ivi). Soltanto con la comparsa della coscienza morale del Sommo Bene s’intuisce un’altra e superiore tipologia di gioco: "Chi ha postulato una nozione più radicale della cultura come gioco, a questo gioco non può [più] stare" (p. XXVII; cfr. p. 250).
Una lettura intrigante: il gioco in una prospettiva filosofica, per riscoprire una parte importantissima dell'interiorità umana. Mi piace soprattutto questa idea dell'autore: il gioco è un terreno di incontro tra il pensiero e la vita materiale. Il pensiero astratto ci eleva dalla pura materialità (ed è vitale farlo per il nostro spirito), ma rischia - senza moderazione - di farci ricadere nell'eccesso opposto, nell'astrattezza intellettuale o nello spiritualsmo. Il gioco è frutto del pensiero, ma con un legame fortissimo alla materia. Dobbiamo allora solo giocare per conseguire questa felice sintesi? Ovviamente no, ma dobbiamo vigilare per non perdere questa dimensione fondamentale del nostro essere, soprattutto in età matura.
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