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La presenza di bambini e ragazzi di recente immigrazione o, sempre più frequentemente, di "seconda generazione", nelle aule di ogni ordine di scuola è un dato consolidato e in costante forte crescita. C'è chi la reputa un bene e una grande opportunità civile e culturale, chi la ritiene una situazione inevitabile e necessaria da affrontare con competenza e lucidità, chi la subisce come un grosso guaio. Per tutti, però, realizzare un'educazione multiculturale contando solo sulle forze dell'istituzione scolastica e all'interno degli obiettivi didattici tradizionali della scuola italiana è un problema che richiede grandi sforzi e, in generale, pone l'insegnante in condizione di disagio. Ma il saggio di Mariangela Giusti pone la questione in un'ottica diversa, che supera le rigidità scolastiche e appare molto interessante e stimolante. Il concetto di fondo che emerge da questa ricerca è quello di consumo culturale: "C'è la necessità di abituarsi e di abituare gli allievi all'idea di un'autoeducazione continua che si rispecchia nella società multiculturale e che non si accontenta di ciò che è stato trasmesso in classe, ma deve proseguire anche fuori dalle aule scolastiche".
Fuori dalle mura scolastiche, in tutta Italia, si vanno formando centri di elaborazione della cultura, come musei e mostre, giornali locali, conferenze, incontri di socialità magari negli spazi dell'ipermercato, in cui il pensiero interculturale cessa di essere una petizione di principio e diventa "un sistema che aiuta a mettere in comunicazione le esperienze esistenziali coi saperi costituiti, (
) un sistema metabolico che permette e assicura gli scambi tra i soggetti e la società (e non che li impedisce creando delle barriere)".
Questo è l'assunto da cui parte la ricerca sul campo di Giusti, ricca di testimonianze dirette e realizzata attraverso interviste, colloqui, momenti diversi di condivisione di momenti di vita ("vissuti di socialità"): i risultati rendono plausibile l'affermazione che l'intercultura non si impara e non si insegna in astratto e che quindi "il ruolo degli insegnanti e degli educatori dovrebbe essere sempre meno confinato nel chiuso delle istituzioni e sempre più in simbiosi con ciò che accade al di fuori di esse". Tra i molti esempi raccolti merita di essere ricordato l'impegno di molti musei, soprattutto di città piccole e medie, come ad esempio il Museo Civico di Reggio Emilia, che ha costruito un percorso sulla maternità in cui "gli oggetti e le testimonianze (
) poste in risonanza l'una con l'altra consentono di sviluppare racconti intorno a temi universali, in cui ognuno si possa riconoscere".
La diffusione di centri di consumo culturale fuori dalla scuola ha un'importante valenza positiva anche per favorire il recupero della dispersione scolastica, che abbastanza spesso colpisce i figli di famiglie immigrate. Infatti le cause degli abbandoni sono in sintesi riconducibili a ostacoli di tipo linguistico, ambientale, culturale e sociale dei ragazzi stessi e alle difficoltà della scuola di farvi fronte. Molto spesso, però, si verifica, anche dopo qualche anno, la volontà dei ragazzi di riprendere il percorso formativo, magari dopo che le più impellenti difficoltà di ordine economico e sociale della famiglia si sono attenuate. La presenza di una vasta rete di possibilità di occasioni interculturali facilita il mantenimento o la ripresa d'interesse per lo studio, offre la possibilità di migliorare il proprio patrimonio linguistico, aiuta a superare il contrasto, apparente o reale, tra la cultura di provenienza e quella proposta dalla realtà italiana. È inutile sottolineare che questo concetto è valido non solo in rapporto con il quadro prodotto dai flussi migratori, ma anche per l'insieme dell'attività formativa ed educativa.
Molto spesso i protagonisti dell'elaborazione culturale sono i giovani stessi. L'attenzione della ricercatrice si sofferma con particolare attenzione sulla condizione dei giovani immigrati di seconda generazione, coloro che sono nati in Italia o sono arrivati nel nostro paese tanto piccoli da aver ricevuto qui tutta la formazione scolastica. Questa generazione è forse l'anello più delicato di tutto il processo di integrazione interculturale: in questi giovani è forte l'esigenza di conservare e rafforzare la propria identità culturale e nello stesso tempo è vivo il desiderio di entrare in rapporto con altri, di uscire dalla condizione di ospite più o meno accettato. Proprio per questo "quando parliamo dell'incontro tra nativi e migranti non dobbiamo pensare di riferirci a strutture culturali antiche, dalla struttura monolitica", ma a situazioni in cambiamento continuo e per nulla omogeneo. Un caso esemplare di attività culturale indirizzata proprio a questa fascia di popolazione, afferma l'autrice, è offerto dal portale www.associna.com: "È un percorso da passato a presente, da una tradizione ricostruita e rielaborata a una condizione attuale (
) sull'essere cinesi e italiani". Un altro caso molto significativo è offerto da "Yalla Italia", rivista mensile realizzata soprattutto da giovani immigrate al di sotto dei trent'anni, che si propone l'obiettivo di "dar forma" alle seconde generazioni di provenienza araba.
Ai bambini e ai ragazzi che ci si ostina a definire "stranieri" deve essere data la possibilità di trovare un equilibrio nella società italiana senza dover scegliere tra un'integrazione che cancelli tutto un portato culturale e un'identità che isoli e ghettizzi. "In questo processo non c'è dubbio che la scuola ha un ruolo decisivo, ma solo se riesce a mettere in archivio alcuni modelli educativi più tradizionali, chiusi e isolanti nei confronti dell'ambiente esterno. La scuola ha un ruolo centrale per la formazione di una mentalità aperta alla molteplicità delle culture, se sa aprirsi all'esterno e a quanto di interculturale l'esterno riesce a proporre".
Il libro di Giusti non si limita a proporre documentazione raccolta dal vivo e riflessioni acute e penetranti, ma ha un pregio in più: è corredato da tre laboratori, proposti a gruppi di insegnanti o anche, con poche modifiche, a gruppi di studenti della secondaria sia inferiore che superiore. I testi presentati si basano, il primo, su un lungo e interessantissimo colloquio con una ragazza peruviana, che mostra chiaramente le difficoltà incontrate nel suo percorso di integrazione, il secondo, sull'intervista comune a un gruppo di donne e sulle loro narrazioni intese come momento di rielaborazione di ricordi e ricomposizione di momenti del passato, mentre il terzo è stato pensato e realizzato con i ragazzi di una scuola media mettendo in atto diverse metodologie: il role play, il brainstorming, la discussione libera, la visione commentata di diapositive. I laboratori possono essere immediatamente messi in atto e utilizzati a diversi livelli, ma possono anche diventare modelli per impostare altre attività di questo tipo.
Scritta in maniera agile, senza eccessivi tecnicismi, questa ricerca non è un libro dei sogni, ma un libro utile, che non dovrebbe essere ignorato da chi opera nelle scuole. Vincenzo Viola
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