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Pur essendo tra i grandi dimenticati della letteratura americana del Novecento, William Saroyan è scrittore capace ancora di appassionare. Anche in questi racconti dimostra come nelle prose brevi abbia raggiunto il proprio vertice narrativo: non ci sono passaggi noiosi o cadute di ritmo (come nel caso, invece, di molti dei suoi romanzi), ma lampi di autentica creatività introspettiva. Eppure la fortuna critica di Saroyan è stata a dir poco altalenante: Pavese, ad esempio, in Raccontare è monotono lo accusava di un "irresponsabile lirismo psicologico", mentre Vittorini nell'antologia Americana ne lodava proprio "la purezza e la ferocia" dello stile. In patria le cose non sono andate meglio: basti ricordare il giudizio di Edmund Wilson che collocava Saroyan (insieme a scrittori come Fitzgerald, Steinbeck e Cain) tra i " boys in the back room ", i ragazzi del retrobottega, caratterizzati da una scrittura "piatta e bidimensionale" e "totalmente asservita" ai diktat dell'allora nascente industria cinematografica. Se questo drastico giudizio di Wilson può essere in parte comprensibile per i romanzi di Saroyan, non lo è affatto per i suoi racconti: short stories ben lontane dai ritratti di un'America edulcorata imposti dal vuoto hollywoodiano. Nelle prose brevi Saroyan si trasforma infatti in un grande narratore delle minoranze: lui - americano d'adozione, armeno di nascita - ci porta la testimonianza, vivida e diretta, degli immigrati nell'America degli anni cinquanta. Anni nei quali vivere "consapevoli di vivere" era più che un "mestiere", mentre "la rabbia e l'orgoglio" erano ancora molto più che semplici opinioni "fallaci".
Gian Paolo Serino
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