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Anno edizione: 2016
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Volume risalente al 1978 ora ripubblicato con una nuova post-fazione - e con ingannevole fascetta che potrebbe far pensare ad un libro-inchiesta sull'affaire Moro, tipo quello coevo di Sciascia. Nelle annotazioni di Arbasino c'è molto di più: una turbinosa critica dell'Italia contemporanea che - come si suol dire, ma in questo caso è vero - suona tristemente attuale. Un libro molto bello. Per chi ricorda l'Arbasino esperto di diritto internazionale, ecco una citazione dalla post-fazione (p. 192): "La prolissità italiana restava però veramente insanabile, come la logorrea dei mercati mediterranei, e ai convegni accademici dove ogni 'intervento' è la lettura integrale di un proprio scritto destinato agli atti. Anche gli illustri corsi dell'Accademia di Diritto Internazionale dell'Aia, nel lontano dopoguerra, allo scoccare dell'ora assegnata per ogni lezione, qualche nostro docente sospirava 'et ici j'ai du^ couper' (e di qui, più di un soprannome), perché era arrivato solo a metà del testo, e fuori dall'aula c'era un altro emerito pronto".
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V'è chi ritiene il rapimento e l'assassinio di Aldo Moro trent'anni or sono un tornante della vicenda della Repubblica, anzi l'avvio di una crisi irreversibile delle istituzioni e della stessa società. E, secondo questa interpretazione, la crisi non soltanto non sarebbe mai cessata, ma ne avremmo sotto gli occhi le conseguenze forse estreme (anche se ben sappiamo che al peggio non v'è fine, sia detto senza ironia alcuna). In questo trentesimo anniversario di quella primavera del 1978, i famigerati cinquantacinque giorni che videro l'agguato, l'uccisione della scorta e contestuale rapimento del presidente democristiano, la prigionia e infine il suo omicidio, le commemorazioni si sono sprecate, ma, dai testimoni superstiti, di autocritiche non ne abbiamo lette o udite, mentre gli analisti, storici o cronisti, hanno fornito ricostruzioni variamente attendibili, ora centrate sulla vicenda di quello che Leonardo Sciascia definì un giallo insolubile, ora invece sulle lotte intestine nella Dc, ora attente al quadro politico generale, interno o internazionale, accentuando talora gli elementi a carattere complottistico, taluno insistendo sulle intime divisioni fra i brigatisti, talaltro sul ruolo dei servizi segreti, più o meno "deviati".
Un cronista anomalo, Alberto Arbasino, non si è cimentato con il gioco della ricostruzione, ma si è limitato a rinfrescarci la memoria riesumando il suo diario dell'epoca, un testo godibile e irritante, come quasi tutte le cose di questo osservatore originale, spesso acuminato sino alla crudeltà , disincantato sino al cinismo, dei tempi e dei costumi di un paese che sembra destinato a non uscire dal pantano in cui classi politiche inette e ribalde, un ceto intellettuale corrivo e la stragrande maggioranza della "ggente", con due g (le deformazioni lessicali, le forme gergali, i dialettismi e le invenzioni linguistiche, spiritose fino alla volgarità e oltre, popolano queste pagine). Soprattutto, sembra ammonirci lo scettico Arbasino, portatore di una visione del mondo che pare influenzata in incredibile contemporaneità da Max Stirner e da Herbert von Karajan, quel paese è lo stesso di oggi, nella sua "confusione", a cui peraltro l'osservatore guarda con un misto di disgusto e di rimpianto per un'altra era che tuttavia, a differenza di Pasolini, quasi un (involontario?) nume tutelare del Nostro, non è vista nel "prima della scomparsa delle lucciole", nell'arcaica e onesta Italia rurale e premoderna, ma forse essenzialmente in un'Italia dei sogni, che ama il bel canto e Gadda, che legge i giornali e capisce la poesia, detesta gli imbrattatori di muri come gli urlatori intolleranti, quale che sia la loro coloritura ideologica. Di quella/questa Italia in confusione, il diario di un letterato che non fa nulla per nascondere il proprio snobismo, ci restituisce, parlando in diretta degli anni settanta, la trista, forse sempiterna identità.
Emergono, nel flusso torrentizio della prosa arbasiniana, i tanti vizi (e le pochissime virtù?) di quel decennio, nel quale, benché molti di quei tic siano tramontati, siamo costretti a specchiarci; e si tratta di una visione poco allegra, anche se nel fiume di frasi, talora parole in libertà di stampo postfuturista, non mancano i momenti di buonumore che questo aristocratico libertino sa trasmetterci, a dispetto della tragedia. E, d'altronde, come gli stessi studiosi del caso sanno, come non ammettere che in quei due mesi tragici la farsa regnò sovrana, tra incompetenze degli organi inquirenti e infedeltà istituzionali, disonestà di pubblici funzionari e demenza brigatista, pochezza dei politici e il furore via via più amaro delle lettere del prigioniero, che da confessioni andarono diventando denunce. Inascoltate le une, vane le altre, in quel crescendo drammatico che Arbasino ci offre cripticamente, ma magistralmente, in un testo che è insieme sfogo personale, invenzione letteraria e indagine antropologica.
L'affaire Moro si rivela così autentica cartina di tornasole (Arbasino mi perdoni la banalità...) dell'epoca, ma anche carta d'identità dell'italica gens. Voltandoci indietro verso quel decennio cominciato con il sogno della rivoluzione e finito con la certezza del ripiegamento, "i giovani nati in seguito, chissà se sapranno discernere se furono anni 'formidabili' o 'di piombo', o un'intrigante play station. Qui, fra cortei armati e canzoni in lp e Cina e Cile e video e sangue ed effimero, Moro e Pasolini vengono riammazzati in tutti i media, mentre non si ritrovano Feltrinelli o Calabresi o Casalegno o i molti altri, lungo gli abiti di Fiorucci e i versi di De Andrè, il juke-box e il Vietnam e i punk e la P38 o la P2".
Non si commetta però l'errore di ritenere che le pagine siano mero sfogatoio dell'artista irosamente consapevole della propria impotenza; no. Arbasino, come già in altri suoi scritti, si rivela indagatore sottile, e il libro, se il lettore supera lo sconcerto del vitalismo d'una prosa esorbitante e lussuriosa, è una piccola miniera di osservazioni degne della migliore sociologia dei comportamenti e della cultura. Un esempio? Egli nota che in nessun altro paese le mode giovanili sono così "totalitarie" come da noi. Dappertutto coesistono stili e modi, abitudini e costumi; "da nessuna parte, come da noi, l'obbligo della lametta al collo solo nella stagione della lametta, e guai se in quella dell'orecchino o della sciarpina". E, perfidamente, aggiunge, tra beffarde parentesi: "(E lo stesso fenomeno, analogo, omologo, nelle idee)". Certo, davanti al "cip cip", al "frou frou", al "tran-tran", evocati dalla penna irriverente di quest'ottocentesco ammiratore dell'Austria Felix, occorre pazienza e spirito d'adattamento; occorre sovente combattere con quella implicita teorica dell'eccesso che anima Arbasino: ma davanti ai troppi timorosi, ai pavidi e agli ignavi, egli ci rammenta, fra le righe, che il peggior eccesso è quello di non eccedere mai. Angelo d'Orsi
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