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C'è da chiedersi se, dopo duecento anni di assidua frequentazione umana (alpinisti, geografi, antropologi, ambientalisti e quant'altro), abbia ancora senso un libro sulle Alpi, che stanno proprio al centro del vecchio continente europeo, sono tra le prime mete dei viaggi nazionali e internazionali e campeggiano sui pieghevoli turistici di ogni paese. Che cosa si può ancora scrivere di nuovo sulle nostre Alpi, dopo due secoli di esplorazione capillare di ogni loro anfratto e la consumazione, non solo simbolica, di ogni prato, foresta o pezzo di roccia?
La risposta è che non solo hanno senso dei libri di buona divulgazione come questo di Marco Albino Ferrari, ma le Alpi ne hanno più che mai bisogno, perché nonostante il loro bagaglio di esplorazioni e scoperte soffrono ancora di una malattia che a questo punto dovremmo considerare grave, se non inguaribile: il virus dello stereotipo. Credo che se i milioni di turisti che ogni anno assaltano le Alpi recepissero alcuni di quei problematici sguardi che il viaggio di Ferrari suggerisce, allora le montagne non sarebbero più merce di consumo. E ancor più, se certe occhiate colte di città (di cui il libro è indubbiamente ricco, con ampia prospettiva geografica e storica) si fondessero con altre occhiate di montagna, di chi la vive e la amministra, forse anche la politica delle Alpi farebbe breccia negli obiettivi dei nostri governanti, che agirebbero come su un bene fragile e prezioso.
Ferrari si muove non dalle valli ma dalle cime (Monviso, Gran Paradiso, Monte Bianco, Cervino, Monte Rosa, Eiger, Engadina, Dolomiti, Alpi Giulie), e dalle cime scende nelle valli per scorgere i segni del divenire storico e della trasformazione antropologica di montagne e montanari, tutti proiettati dalla scoperta romantica settecentesca e dall'idillio ottocentesco verso le contraddizioni della contemporaneità, dove mancano le parole per descrivere vecchie metafore o immaginarne di nuove. Per esempio il Cervino, passato da "montagna impossibile a icona per mille souvenir e raffigurazioni adottate da marchi di fabbrica: dai pastelli Caran d'Ache all'allusiva forma a spicchi triangolari del cioccolato Toblerone". Oppure il Monviso, che "più che appartenere alle Cozie potrebbe spiccare dall'Himalaya ed essere paragonato a montagne sacre come il Kailash, lo Shivling o il Nanda Devi (
) Un simbolo su cui è facile speculare". O ancora l'anacronistica spensieratezza dell'Engadina, "un mondo nobile e antiquato, felice, elegante nella sua solare decadenza". Uno dei principali pregi del "viaggio" di Ferrari è quello di non fermarsi all'erudita elencazione degli avvenimenti e dei significati che, nel tempo, sono transitati e sbiaditi sulle montagne, ma di mettere il dito nella contemporaneità, affrontando anche questioni spinose e niente affatto idilliache, quasi negazioni di quei paesaggi immortali che la propaganda alpina ha costruito e rinnovato nei secoli.
Se le Alpi sono ancora imprigionate dagli stereotipi del bel tempo andato, vittime di insulse negazioni dei mutamenti economici e culturali che le vedono al centro del continente più industrializzato, è esattamente dai paesaggi falsamente vergini che dobbiamo guardarci: per capire il passato e ripensare il futuro.
Enrico Camanni
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