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Anno edizione: 2022
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«Lei, essa poesia, ha ritmica, ha melodia, timbro. Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha».
«Ogni poesia implora un respiro che la dica».
Dire la poesia non avviene sempre. Eppure anche nel dire la poesia consiste, da sempre, la poesia. Lo sapeva Carmelo Bene con il suo personalissimo teatro della crudeltà, lo sapevano i Romantici e i Surrealisti, lo sapeva García Lorca, quando trovava il suo duende nella musica, nella danza e, appunto, nella poesia a viva voce (hablada), arti tutt'e tre, sosteneva, che hanno bisogno di un corpo vivo che le interpreti. Lo sa bene, benissimo, Mariangela Gualtieri, che da quarant'anni «dice la poesia in pubblico», avvolgendo chi la ascolta in un «mondo orale aurale» che non ha uguali. Sí perché «spesso», come dice Gualtieri, i professionisti, gli attori, leggono il verso puntando «sulla sua componente razionale e di significato, trascurando tutto il resto». Nella sua «arte di dire la poesia», Gualtieri ci parla invece solo del resto. E per farlo trova un linguaggio nuovo e sorprendente: non un discorso sul dire la poesia ma una scrittura con il dire la poesia. Non concetti astratti, ma figure, immagini, sensazioni fisiche, echi. E analogie, fino a costruire un libro di poesia saggistica, a opporre visione a discorso, a parlarci vicino e alto, lontani dalla chiacchiera. E cosí: «Formule magiche schiacciate nei libri – solo al pronunciarle si fanno efficaci. E formule mantriche, solo in voce trovano compimento. E spartiti di musica, tutti, chiedono fiato, gole, dita per farsi forma sonora. Cosí ogni verso. Ogni poesia implora un respiro che la dica. Essere detta. Detta per bene in sua ritmica e melodia e timbrica e interni silenzi».
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Da attrice e fondatrice del Teatro Valdoca, e da poetessa tra le più intense e apprezzate oggi in Italia, Mariangela Gualtieri nel suo saggio composto di aforismi, meditazioni, suggerimenti, intuizioni e lampi rivelatori, sottolinea l’importanza della resa sonora del componimento poetico. Forte della propria quarantennale esperienza sul palcoscenico, sa quale sia l’importanza di riconsegnare vocalmente veridicità e tremore alla lettura poetica, quale sia la magia che si instaura quando un pubblico attento e silenzioso viene immerso in un “bagno acustico”: gli astanti, in “stato umanissimo d’ascolto acuto”, diventano testimoni e nello stesso tempo partecipi dell’evento sonoro, vivendolo risonante. Disabituati ad ascoltare poesia, ne sono affamati: “Portano loro denutrizione su poltroncine, la mettono lì spalancata. Portano loro gigante aver fame, aver sete. Nessuno da tempo dava un boccone. Nessuna tetta allattava loro secca terra interiore”. Attraverso una prosa ellittica, ispirata, sentenziosa e sapienziale, Mariangela Gualtieri ci introduce nel rito del dire e dell’ascoltare poesia, che è tenacemente e sempre costruita su ritmo, timbro, respiro, memoria, pensiero: “Musica è. Tutti i poteri della musica. Tutti li ha”. Allora i versi diventano “formule magiche… formule mantriche”, “pezzi di esplosivo capaci di indurre a trasformazione interiore”, riconducendo il vissuto alla sua dimensione più elevata e trascendente. Così, immergendosi in un “mondo aurale orale”, si impara a piangere e a ridere, ad ascoltare e ad ascoltarsi, a “non avere non essere non volere… a esserci pienamente presenti e non esserci… a diventare invisibili”. Questo insegna la voce che dice poesia: “Lasciare zavorra di pensieri. Lasciare desiderio di compimenti, di buon risultato. Rinuncia. Niente esito”. Ciò che si raggiunge è una liberazione, un’apertura: perdono, consolazione, rimedio. “Catarsi si chiama. Come quando la neve appare. Come, svoltato l’angolo, luna improvvisa piena”.
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