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Un inchino a terra - Franco Cordelli - copertina
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Descrizione


Nell'arco di pochissime ore - giusto il tempo per un uomo e una donna, amanti da tempo, di incontrarsi in un celebre caffè romano e di recarsi poi a una festa - sono concentrati la vita e il mondo di Clemente, socialista disincantato, ex potente che sta vivendo l'ora del declino e della sconfitta.
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Dettagli

1999
7 settembre 1999
232 p.
9788806137236

Valutazioni e recensioni

2,33/5
Recensioni: 2/5
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Albertino Mossu
Recensioni: 1/5

egregio Cortellessa, ancora con questa solfa della "fine del romanzo"... Ma mi faccia il piacere! p.s. il libro di cordelli non mi è piaciuto affatto.

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Pippo Tommasi
Recensioni: 1/5

Un libro brutto, narrativamente debolissimo.

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Giorgio Fettina
Recensioni: 5/5

un capolavoro.

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Recensioni

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Voce della critica


recensioni di Cortellessa, A. L'Indice del 1999, n. 11

Clemente è nato nel 1943, sotto le bombe. Nel ’68 era comunista, idealista. Nel 1993 è un uomo rovesciato: "le utopie lo nauseavano". Suoi amici, ora, sono i sedicenti socialisti che hanno sottratto l’Italia agli italiani. È prezioso perché invisibile, trasparente: manipola il bottino, lo porta oltre frontiera.

È diventato uno "stronzo" (p. 178), ma non ha smesso di essere intelligente: i miliardi immateriali gli hanno fatto scoprire il pensiero astratto. Le sue con Niccolò sono diatribe ontologiche: dopo aver "smesso di credere, in qualsiasi cosa", Clemente è convinto che "la realtà non esiste". Ma all’orizzonte lampeggiano nuove Fortezze Volanti. "Era la fine di un regno; di un’epoca": e allora – come a Pompei, a Vienna o a Salò – si celebrano "gli ultimi giorni dell’umanità". Dopo aver incontrato alla casina Valadier l’amante che condivide col capo dei capi, Clemente perviene sull’Ostiense, alla festa per i suoi cinquant’anni: con i potenti e le donne che ha attraversato incurante – immateriali anche loro, "una uscita fuori dall’altra, come donne cinesi, come pupazzi". Un’interminabile, moraviana mascherata: nella quale le superfici dei volti, degli abiti, dei quadri alle pareti, delle stesse parole, aboliscono ogni sospetto di interiorità. Clemente si crede "in visita a una mostra di disegni satirici o grotteschi"; ma uscirne non lo porta da nessuna parte. Percorre l’Ostiense su e giù in cerca della macchina.

Dentro la macchina trova uno sconosciuto, un "fuggiasco"; ma continua: verso Corviale. L’immenso edificio – vent’anni prima capolavoro dell’utopia urbanistica, ora monumento al degrado suburbano – è diroccato, semideserto, come bombardato. È l’alba. Al margine della scena, un’auto in fiamme. Qui Clemente capisce la sua "debolezza". Torna verso la macchina; "per un attimo, si chinò a terra": non sa se è inciampato. Ultima conversazione. Stavolta pare ascoltare: un giovane gli dice di essere il custode al museo paleontologico, al Pigorini; non vorrebbe che Corviale venisse abbattuto. Clemente gli promette che andrà a trovarlo, al museo.

Raramente come con questo nuovo libro di Cordelli – a quasi dieci anni da Guerre lontane (Einaudi, 1990) – si ha l’impressione che ogni particolare sia iperdeterminato; che l’edificio complessivo sia allegoricamente coibentato, proprio come il mostruoso parallelepipedo di Roma Sud. Inevitabilmente lo si è letto come romanzo politico. Certo, è anche questo; come tale ha avuto plausi tenui, di stima (Massimo Onofri, "diario della settimana", 8 settembre; Giulio Ferroni, "Corriere della Sera", 9 settembre), e un peana da Massimo Raffaeli ("il manifesto", 17 settembre), che cita Lukács per dire che "non si dà romanzo in assenza di conflitto". Ma il punto è proprio questo. Il romanzo non è politico in senso storico (dialettico); la storia è piegata in un disegno tutto interiorizzato e simbolico, mitico. Lo stesso "socialismo" è categoria trans-storica: replica del fascismo, a sua volta replica dell’imperialismo romano (i gerarchi craxiani portano tutti nomi di imperatori: Augusto, Adriano ecc.; Clemente è invece il martire: il testimone dei loro misfatti). Vale semmai, dell’etimo di "politica", la radice legata alla città: non per caso quella "eterna", in cui si sovrappongono – come sulla scena di un medesimo teatro – drammi diversi che si ricalcano, l’uno all’altro alludendo ("in quanto a Roma e al suo teatro, quello era eterno"). Lo scenario urbano, deuteragonista, alla fine prevale (Piero Gelli, "l’Unità", 20 settembre, ha parlato di Scipione e de Chirico; viene in mente Sironi, la malinconia di rifare Roma nella livida ossessione volumetrica del fascismo).

Manca del tutto in Un inchino a terra, benché sia parlato pressoché per intero, la dimensione dialettica, dialogica. Dostoevskij non potrebbe essere più lontano, benché se ne senta spesso l’eco (lo ha notato Lorenzo Mondo, "Tuttolibri", 18 settembre); trionfa invece il monologismo alto, rituale, al quale Cordelli ci ha già abituato (partito com’è dalla scrittura "bianca" di James, ora più attratto dal marmoreo lirismo del Broch della Morte di Virgilio o dalla hybris flaianea di fare della narrativa una concatenazione di aforismi): e questo scolpire ogni frase come in epigrafe, ogni battuta come fosse quella d’uscita in fine d’atto, può – alla lunga – effettivamente stancare. Clemente non si mette in discussione: vince a mani basse ogni duello dialettico. Il personaggio è perciò totalmente privo di quello che si definisce – con opportuna metafora giudiziaria – "foro interiore". Piuttosto, è lui stesso un foro: un trascendentale vacuum ideologico che risucchia gli altri personaggi e, all’inizio, l’intera narrazione. Ma quando Clemente resta bloccato su un ponte (i ponti hanno tutti nomi di socialisti "veri") avviene qualcosa di nuovo: a fermarlo non sono le parole complici di Niccolò, né quelle vuote delle sue donne-fantasma. A bloccare il traffico è il corpo di una vecchia "piegata in due, sull’orlo del marciapiede"; e per la prima volta lui è a disagio: "quel corpo era vivo, ma muto, offeso, rotto per sempre" (e gli "ripugnava che qualcuno non fosse in grado di conservare la posizione eretta"). Ci sono poi altri inchini (uno, a pagina 129, è parodia dell’eucarestia); ma è nel finale che la narrazione a sua volta si piega, si accartoccia su se stessa. La postura rannicchiata del "fuggiasco" gli ricorda quella a terra di una vittima della violenza politica: Clemente aveva deciso allora che "tra la violenza e la menzogna, era accessibile la menzogna". C’è poi l’inchino di fronte al colossale contendente conclusivo, Corviale. Per Raffaeli il finale "nasconde una possibile redenzione" (ogni muro, aveva detto kafkianamente Niccolò, "annunzia una porta": e il monolitico Corviale "era uno specchio; ed era un muro"): davvero a Roma Sud, fra Corviale e il Pigorini incastonato nei marmi fascisti dell’Eur, c’è la terra promessa di Clemente, il suo Teatro Naturale di Oklahoma.

Ma non siamo solo di fronte al racconto di una trascendenza laica. Rileggendo La democrazia magica – il saggio di Cordelli sulla forma romanzo (Einaudi, 1997) – viene il sospetto che Un inchino a terra sia anche un libro metalinguistico. Cordelli saggista insegue il romanzo-romanzo, che "allestisce un’architettura, uno spazio, una vivibilità". La lingua saggistica di Clemente è quella che nel romanzo-romanzo deve farsi carne ("le idee senza le persone non sono nulla; sono sgorbi, sfregi, infine una forma della tirannia"): ciò che non avviene nella prima parte di Un inchino a terra. Poi la scrittura si confronta con nuove figure, silenziosi volumi allegorici (la vecchia sul ponte, il fuggiasco, Corviale). Vengono in mente le pagine della Democrazia magica sull’iconismo di Moravia (un Moravia in gran parte immaginario, come a Cordelli – e a tanti altri – piacerebbe fosse stato), il cui personaggio "accetta il mutismo del mondo e lo rispetta (…), ha l’abitudine di inginocchiarsi per spiare dal buco della serratura, [lo] sorprendiamo spesso nel suo inchinarsi di fronte alla passione, ciò che lo domina" (miei i corsivi). L’immane icona di Corviale fa piegare Clemente – il mito, l’astrazione – all’omaggio nei confronti del tempo – la storia –: col farsi emblema, non del crollo (ciò che sarebbe corrivo e volgare), bensì del degrado, della deformazione degli ideali. Sconfiggendo e atterrando la dizione esplicita (volgarissima) che della stessa idea compie (non fa altro) il personaggio.

La democrazia magica, decretata estinta la forma romanzo (alla fine di Un inchino a terra ci si dirige al Pigorini, il cimitero dei dinosauri), non per ciò la nega ("la morte di Dio, o del romanzo, non ci autorizza a ritenere tuttavia concluse queste esperienze: esse sono interminabili"). Quella che si può nutrire oggi, dunque, è la superstizione del romanzo. Un inchino a terra è la catastrofica appercezione del vuoto che abita la forma-romanzo. È un romanzo metastorico – che ha rinunciato cioè "al suo centro, al suo io": Clemente può redimersi solo quando sente finalmente dentro di sé il vuoto siderale. Vuoto non solo psicologico, ma formale: il vuoto che da tempo divora dall’interno la narrativa. Corviale è sì un’architettura, ma certo non è abitabile. Cita Barthes (su Queneau), La democrazia magica: "sa (…) che bisogna immergersi fino in fondo nel vuoto che si dimostra; sa anche però che questa compromissione perderebbe tutta la propria virtù se fosse detta, recuperata con un linguaggio diretto: la letteratura è il modo stesso dell’impossibile, perché essa sola può dire il proprio vuoto". Può valere come epigrafe per Un inchino a terra: con tutti i suoi difetti forse il primo, cosciente romanzo dopo la fine del romanzo.

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Franco Cordelli

1943, Roma

Critico teatrale e scrittore, collabora con il «Corriere della Sera». Vive a Roma. Ha pubblicato romanzi (Procida, Le forze in campo, I puri spiriti, Pinkerton, Le guerre lontane, Un inchino a terra, Il Duca di Mantova) e saggi (Partenze eroiche, La democrazia magica, La religione del romanzo, Lontano dal romanzo).

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