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Il titolo di questa raccolta ben riassume il tema unificante delle varie sezioni: una riflessione pacata e malinconica sul significato dell'esistenza, nel suo sorgere e nel suo finire. La morte, quindi, "Solo la morte le contiene tutte/ le infinite varianti delle storie", "Dopo la morte la vita è un immenso/ geroglifico opaco traversato/ da segni incomprensibili". Morte osservata in un cimitero di campagna o attraverso le finestre di un ospedale, morte incomprensibile di una persona amata ("ma la morte che toglie via il più caro/ è come un buco nella tela, o altro/ che si può dire/ così: niente è più uguale): però anche la constatazione del transeunte a cui nulla si sottrae ("che cosa può durare?//...il fiore non fiorisce che è già gelo"). A questo destino di annullamento a cui non sfuggono nemmeno gli animali ("Il non sapere nulla della morte/ non salva gli animali dalla morte"), nemmeno le stelle e l'universo tutto ("L'enorme solitudine delle stelle/ somiglia forse a quella/ d'uomini alla deriva"), il poeta vorrebbe contrapporre, come unica ipotesi di salvezza, un ritorno all'origine, quasi uno scorporamento che ci disincarni dalla corruttibilità della materia. Rinunciare, ritornare, sono termini ricorrenti in questi versi: l'aspirazione a una libertà che sollevi dal peso vincolante della riproduzione, della nascita e della morte. Daniele Piccini propone un uso consapevole e originale della tradizione, in particolare nella sezione più convincente del volume, "Cellule", in cui una trentina di sonetti mascherati, privi di rime, ma aperti tutti da melodiosi endecasillabi, ripercorrono con raffinata eleganza i temi dell'intera raccolta, un dialogo assorto con la natura e il divino, con la scrittura e il pensiero, il corpo e lo spirito, l'inizio e la fine: "un andare verso, un terminare".
Recensioni
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